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superbia
- gola
- lussuria
- avarizia
- ira
-
invidia
- accidia
Superbia
In
italiano superbo
vuol dire letteralmente essere
sopra,
composto da super
e dalla parola bo,
quest’ultima di non facile derivazione etimologica che può
rimandare sia al verbo greco baino,
che vuol dire camminare, sia alla radice ebraica bo
che vuol dire venire, sia al sanscrito bhu,
che vuol dire essere e sia infine al verbo greco phaino
che vuol dire apparire, potendo la ph trasformarsi facilmente in b
come in befana, termine che proviene da epifania.
Se
super-bo è chi si crede e si pone sopra l’altro, il contrario è
pro-bo, che gli si pone di fronte e a suo favore. Superbia è
l’insieme di desideri, pensieri, parole, progetti e azioni che si
pongono in atto per affermare la propria volontà di superiorità.
Per
esprimere il peccato o vizio della superbia il Nuovo Testamento
ricorre soprattutto al termine hyperēphanía
(Mar. 7:22; Luca 1:51; Rom. 1:30; 2Tim. 3:2; Giac. 4:6: 1Piet. 5:5)
che etimologicamente vuol dire «mostrarsi» o «apparire più e
sopra», a volto tradotto anche con arroganza.
Ad
esso la Bibbia contrappone il termine tapeinos,
da cui l’italiano tapino, che allude a chi è infelice, povero,
tribolato, misero e impotente (il cui significato è rimasto nella
nostra lingua) su cui veglia lo sguardo di Dio (quest’ultimo
significato scomparso però nella nostra lingua). Nella sua lettera
Giacomo afferma che lo Spirito di Dio «resiste ai superbi
(hyperēphánois),
agli umili (tapeinois)
invece dà la sua grazia» (Giac. 4:6). Il termine utilizzato da
Pietro (Dio
resiste ai superbi, ma
dà grazia agli umili)
per dire che Dio «resiste ai superbi» è antitássetai
la cui radice verbale vuol dire «mettere» o «disporre le cose in
ordine». Chi si costituisce al di sopra degli altri viola l’ordine
divino della grazia, dove ciò che si è e ciò che si ha, lo si è e
lo si ha per grazia, non perché conquistato ma perché donato.
È
proprio qui che la Bibbia individuare la radice della superbia: nel
sovvertimento dell’ordine della grazia. L'uomo nega la sua origine
e si sostituisce a Dio, prendendone il posto. In questa radice la
Bibbia ravvisa l’essenza stessa del peccato, di cui parla il terzo
capitolo della Genesi.
Nel
giardino dell’eden all’uomo è dato di fruire di tutti i frutti
degli alberi: gli è dato, cioè donato. Di un unico albero non può
mangiare, quello al centro del giardino. Toccare e mangiare di
quest’albero è morire. La superbia, per la Bibbia, è
l’autocostituirsi dell’uomo come padrone che su tutto e tutti,
cose e persone, imprime il suo marchio di dominio e di possesso. Ma
negando la relazione di grazia, dal quale è originato e amato,
l’uomo precipita in una esistenza che non gli è più congeniale,
come mostra il seguito del racconto biblico della Genesi in cui la
donna acconsente alla «voce del serpente»: «Allora
si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi;
intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture».
Negarsi
alla grazia di Dio, non è entrare nella felicità, come si illudeva
la donna al cui sguardo l’albero era apparso «buono
da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare
saggezza»,
ma perderla, come vogliono le immagini dell’apertura degli occhi,
della nudità e del tentativo di occultarla con le foglie.
Il
superbo si appropria della conoscenza del bene e del male,
pretendendosi lui stesso giudice come Dio. È quanto constata Dio
stesso dopo la disobbedienza dell'uomo: «Ecco
l’uomo è diventato come uno di noi, per la conoscenza del bene e
del male»
(Gen. 3:22). Il superbo, per la Bibbia, è colui che prende il posto
di Dio mettendosi sopra a tutto e sopra a tutti e, in questo senso,
facendosi veramente «come
Dio».
La superbia, non è la negazione di Dio, ma ne è l’appropriazione,
cosa paradossale per cui ne è la contraffazione e la parodia.
Mentre
Dio è sopra a tutto e sopra a tutti per promuoverne il bene, non
curandosi del proprio, il superbo si costituisce sopra a tutto e
sopra a tutti, non per il loro bene ma per curare il proprio bene.
L’essenza della superbia è in questa trasmutazione del bene che,
da bene che l’io deve all’altro, si perverte in bene che l’altro
deve all’io. Questo cancella la realtà stessa del bene e il mondo,
creato per il bene, si degrada in giungla di interessi ed egoismi da
difendere con la forza.
Per
questo la superbia è il primo dei vizi e coincide con l’essenza
stessa del peccato e di ogni peccato. È il peggiore dei peccati,
perché per sua natura rappresenta un’avversione nei confronti di
Dio e dei suoi comandamenti. La superbia è la fonte di tutti gli
altri peccati, perché è il primo per intenzione.
La
superbia con il tempo si trasforma in stile di vita e di
comportamento. Stile di vita e di comportamento che si esprimono in
una molteplicità di modi che vanno dall’orgoglio alla vanagloria,
dall’autosufficienza al disprezzo, dal narcisismo
all’autoindulgenza, dall’ambizione al vanto,
dall’autogiustificazione all’irresponsabilità, all’insofferenza,
all’aggressione, alla cattiveria e al vittimismo; si nasconde in
una pluralità di forme che vanno dal carrierismo, alla ricerca del
potere, alla cura del proprio corpo, all'apparente altruismo o false
opere di beneficenza e può anche tradursi in ideologie, fanatismo,
razzismo, ecc.
Se
il peccato è dentro, quali indicazioni umane possono aiutare a
prenderne coscienza? Si può partire da una riflessione-analisi su
casi «incarnati»:
chi
si offende facilmente e stenta a perdonare;
- chi si compiace di
essere sempre al centro dell’attenzione, ammirato, lodato,
coccolato;
- chi soffre e si irrita se viene rimproverato o
biasimato;
- chi non pensa ad altro che a far bella figura, a
comparire, ad emergere;
- chi vede tutto bello in sé e tutto
brutto negli altri;
- chi vuole avere sempre ragione e nelle
discussioni non cede mai;
- chi parla volentieri e spesso di sé,
e il pronome “io” appare sempre nel proprio parlare;
- chi
pretende di dar consigli a tutti, senza accettarne da nessuno...
-
ci si vanta delle proprie buone qualità come se fosse merito
proprio, dimenticando ciò che afferma la parola di Dio: «Ogni
dono perfetto viene dall’alto, discendendo dal Padre dei lumi»
(Giac. 1:17), mentre di veramente «proprio» c’è solo il
peccato;
- ci si gloria dei pregi che si hanno, come se non
fossero talenti donati da Dio;
- si guardano gli altri con forme
di un certo disprezzo che denota la propria superiorità.
Il
messaggio cristiano taglia alla radice la pianta viziosa della
superbia, e la orienta nella giusta direzione: «Ciascuno
di voi consideri gli altri superiori a se stesso»
(Fil. 2:3). Riconoscere la grandezza di sé è inseparabile dal
riconoscere la grandezza dell’altro; la stima di sé è
inseparabile dalla stima dell’altro.
Una
sconfitta, un’umiliazione prima o poi arriva a smascherare
l’eccessiva presunzione di sé.
Quali
rimedi offrire a una tentazione sempre presente?
-
Innanzitutto una vita di preghiera.
Gola
Il
cibo è essenziale per la vita dell'uomo. Per questo tutte le
religioni, da quelle più primitive a quelle più complesse e
strutturate, da sempre hanno istituito un legame profondo tra il
divino e le fonti di sussistenza dalle quali dipende la sopravvivenza
delle persone.
Il
cibo non è solo sopravvivenza, ma è anche piacere e benessere. Dio
ha chiamato Abramo e ha liberato Israele dall’Egitto per fargli
dono di una terra «dove
scorrono latte e miele»
e dove Israele può abitarvi solo con la coscienza di restarvi sempre
come ospite ospitato da Dio che ne è il proprietario (Lev. 25:23).
Questo legame tra Dio e il cibo è ugualmente importante nella
tradizione cristiana se solo si pensa che nella preghiera che Gesù
ci ha lasciato, il Padre Nostro, una delle richieste che rivolgiamo a
Dio è «dacci
oggi il nostro pane quotidiano».
Il
cibo è dono di Dio all’uomo, e il «pane» e «vino» della
celebrazione eucaristica ci dice che l’uomo ha bisogno, oltre che
del pane e del vino, di altre cose, perché il pane e il vino sono
rappresentativi anche di qualcos'altro.
L’immagine
del «banchetto sacro», comune a molte religioni, secondo la quale
mangiare alla presenza di Dio allude a qualcosa di straordinario,
essa dice che il mangiare è anche una relazione di amore.
Qui
risiede la differenza abissale tra il mangiare da soli, in compagnia
solo di se stesso, e il mangiare da invitati, dove si alla presenza
di altri. Dire che il mangiare è atto sacro, è lungi dall’essere
affermazione ingenua o irrazionale.
Il
rapporto deformato con il cibo si ha quando viene a mancare la
coscienza di tutto questo. Il peccato o vizio della gola è quando il
cibo, da fonte di piacere diventa fonte di malessere o perché si
mangia troppo o perché si mangia poco o perché si mangia male. Per
questo, tutte le culture hanno fissato delle modalità (come mangiare
e con chi mangiare), i tempi (quando mangiare) e i ritmi (quante
volte mangiare).
Il
peccato di gola, la Bibbia lo pone sotto il nome di «dissolutezza»,
che è il contrario dell'autocontrollo e del dominio, viene a mancare
la giusta misura che consiste nel non oltrepassare il limite, e la
mancanza di temperanza, con cui, al momento opportuno si sa decidere,
come vuole la radice del termine (da temnein,
tagliare), dicendo basta.
Ma
questo non basta. Il giusto rapporto dell’uomo con il cibo esige
altro: la riconoscenza, cioè la consapevolezza che Dio si prende
cura dei nostri bisogni, e la giustizia, con cui per amore si
condivide ciò che si ha con chi non l’ha.
Lussuria
Il
Fedro di Platone dice che l’eros è lacerazione dell’anima.
Aristofane
nel Simposio
dice
che
l’eros
è forza che «ci riporta all’antica natura e cerca di fare di due
uno (en
ek dyoin)
e di risanare l’umana natura» per cui «ciascuno di noi è come
una contromarca di uomo (symbolon),
diviso com’è da uno in due (ex
enos dyo),
come le sogliole» (Simposio 191
D)?
Dopo
aver creato l’uomo e averlo collocato nel giardino dell’eden, Dio
si disse e gli disse: «Non
è bene che l’uomo sia solo. Gli voglio creare un aiuto che gli sia
simile»
(Gen. 2:18). La traduzione più fedele al testo originale suona: «Non
è cosa buona essere l’uomo solo per se stesso. Gli farò un aiuto
che sia il suo «di fronte». La ragione per la quale, secondo il
testo biblico, Dio crea la donna non è, come nel mito platonico, di
ricomporre l’unità originaria ma anzi di introdurvi una rottura
all’unità originaria (solitudine), la relazione tra l’io e il
tu. La donna, per il testo biblico è colei che viene messa di fronte
all'uomo e gli impedisce di chiudersi in se stesso e restare
incatenato al suo io.
Lungi
dall’essere ricomposizione dell’unità perduta, l’eros, per la
bibbia, è il suo superamento. È l’evento dove all’uomo è dato
di uscire da se stesso grazie all’alterità femminile e dove tra i
due si istituisce una relazione, e una relazione aperta che si apre
al terzo - il figlio, e così si sviluppa nella fecondità, nella
bontà, nella gratuità, nell’essere per l’altro e non più per
se stesso.
Se
l’eros è relazione, e relazione sempre aperta, che non si chiude
mai su se stessa, ciò che, per la bibbia, lo deforma e lo trasforma
in lussuria, è la negazione di questa relazione e della sua apertura
al terzo. Parlando dell’eros come apertura al terzo, non ci si
riferisce alla dimensione biologica – puro materialismo – ma alla
capacità di uscire fuori dal proprio io di andare oltre la propria
identità: è la paternità.
Coloro
che non hanno figli non vi debbono in alcun modo vedere un disprezzo.
Si può avere nei confronti degli altri un atteggiamento paterno.
Considerare altri come proprio figlio.
La
lussuria, per la quale la bibbia ricorre a termini quali porneia
o dissolutezza,
è una contraffazione dell'eros: l’eros ridotto alla sola
genitalità o piacere; l’eros degradato alla nuda sfera biologica;
l’eros trasformato in merce di scambio; l’eros strumentalizzato
per la pubblicità e vendita di prodotti commerciali; l’eros
venduto, umiliato sulle strade della prostituzione, ecc..
La
lussuria crede che il sesso sia la via per la felicità. Questo
conduce a una personalità degradata. Ciò è evidente fin dai primi
racconti biblici; dal tempo del diluvio essa è un fenomeno tipico
della degradazione umana (Genesi 6; Gen. 18 Sodoma e Gomorra.
La
fede cristiana vuole salvare l’essere umano dalle trappole della
falsa gioia, e della fatua felicità per indirizzarlo là dove
veramente la gioia può essere trovata. Scopo ultimo della vita umana
dare gloria a Dio. Ma spesso il sesso diventa un sostituto di Dio.
Per vincere la lussuria, bisogna convertire la propria attenzione
orientandola verso Dio.
Avarizia
Il
denaro è il bene più desiderato perché è la condizione per
l’acquisto e il godimento di ogni altro bene. Il denaro è al
centro dell’interesse delle famiglie e delle società e del mondo.
Per questo è intorno ad esso che ruotano le istituzioni politiche,
ed è per il suo raggiungimento che si commettono ingiustizie e
violenze. Consapevole del potere negativo del denaro, Gesù, nel
vangelo, dice: «Guai
a voi, ricchi, perché avete già la vostra consolazione. Guai a voi
che ora siete sazi, perché avrete fame. Guai a voi che ora ridete,
perché sarete afflitti e piangerete. Guai quando tutti gli uomini
diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti facevano i loro padri
con i falsi profeti»
(Luca 6:24,25).
Non
è una condanna della ricchezza in quanto tale. Infatti, nel VT la
ricchezza era considerata una benedizione e segno di protezione
divina, come testimonia la storia dei patriarchi: Abramo «era
molto ricco in bestiame, argento e oro
(Gen. 13:2), Isacco «crebbe
tanto in ricchezze fino a diventare ricchissimo»
(Gen. 26:13) e Giacobbe «si
arricchì oltre misura e possedette greggi in grande quantità,
schiavi e schiave, cammelli e asini»
(Gen. 30:43).
Il
Nuovo Testamento, invece, mette in luce la ragione che trasforma la
ricchezza da benedizione in maledizione: la volontà di possesso e di
appropriazione che ne cancella l'aspetto di dono di Dio all’uomo e
di dono dell’uomo all’altro uomo. L’avarizia, per la bibbia, è
amore per la ricchezza in quanto tale, voluta e accumulata, e
cancellata come dono proveniente da Dio e destinata al soccorso del
prossimo.
I
termini biblici per avarizia sono pleonexia (Mar.
7:22; Rom. 1:29; 2Cor. 9:5), il volere avere (ekein)
di più e sempre di più (pleon),
e philargyria (1Tim.
6:10; cfr. Luca 16:14; 2Tim. 3:2) che letteralmente vuol dire amore
(philia)
per il denaro (argyria).
Per Paolo, l’avarizia è quel male dal quale derivano tutti gli
altri mali: «radice
di tutti i mali è l’amore al denaro
(riza
gar panteon ton kakon estin e philargyria):
per tale sfrenato desiderio alcuni hanno deviato dalla fede e si sono
procurati molti tormenti»
(1Tim. 6:10).
Al
popolo che sta per entrare nella terra promessa, Dio ordina:
«Mangerai
a sazietà e benedirai il Signore Dio tuo a causa del paese fertile
che ti avrà dato»
(Deut. 8:10). Su questo imperativo, la tradizione ebraica ha
istituito la sua prassi della benedizione, cioè non si deve prendere
possesso e godere delle cose se prima non si pronuncia la preghiera
di benedizione.
Con
la benedizione, l’uomo biblico riconosce che ciò di cui si nutre
non è suo ma di Dio e, se di Dio, non può appropriarsene e
rivendicare il diritto di proprietà. Ciò che, per la bibbia, fa
dell’avarizia una patologia e la traSforma in peccato e vizio, è la
negazione della gratuità, e la ragione per cui Paolo la ritiene la
radice di tutti i mali, è perché, negando la gratuità, nega la
fiducia in Dio. Scrive l’apostolo: «per
tale sfrenato desiderio
[della philargyria o
avarizia]
alcuni hanno deviato dalla fede e si sono procurati molti tormenti»
(1Tim. 6:10). L’avarizia è tradimento della fiducia nella bontà
del Padre celeste che, se «veste
l’erba del campo»
(cfr Mat. 6:31) e «nutre gli uccelli del cielo» (cfr Mat. 6:26),
tanto più si preoccupa e provvede ai suoi figli (Mat. 6:30ss).
Gli
avari si autoprocurano molti tormenti, letteralmente «trafiggono se
stessi con molti dolori», perché si escludono dalla logica della
bontà verso il prossimo. Il ricco Epulone, «vestiva
di porpora e di bisso e tutti i giorni banchettava»
(Luca 16:19) incurante del «povero
Lazzaro coperto di piaghe e bramoso di sfamarsi»,
Gesù dice che «morì»
e andò «all’inferno
tra i tormenti»
(Luca 16:23). Il tormento dell’inferno al quale è condannato il
ricco della parabola è il tormento dell’avaro che, nella sua
avarizia, è sommerso dal grido di rimprovero dei poveri lazzari ai
quali quella ricchezza sarebbe dovuta essere in parte destinata.
Ira
L'ira
travolge e acceca la ragione.
Per
la tragedia
greca la
ragione dell’«ira» non va ricercata nell’uomo, ma nel volere
degli dèi che, suscitandola, realizzano i loro disegni. Il primo
verso del poema omerico dell’Iliade ha come soggetto l'ira:
«Cantami, o diva, del Pelide Achille/l’ira funesta») attribuita
al volere di Giove («così di Giove/l’alto consiglio s’adempia»).
Per
il filosofo Aristotele, invece, l’ira è un eccesso di reazione al
comportamento altrui.
Per
la bibbia l’ira è un atto della libera volontà umana. L’ira, ha
come estrema conseguenza l’omicidio. Il primo omicidio della storia
è la messa in scena dell’ira di Caino:
«Dopo
un certo tempo, Caino offrì frutti del suolo in sacrificio al
Signore; anche Abele offrì primogeniti del suo gregge e il loro
grasso. Il Signore gradì Abele e la sua offerta, ma non gradì Caino
e la sua offerta. Caino ne fu molto irritato e il suo volto era
abbattuto. Il Signore disse allora a Caino: ‘Perché sei irritato e
perché è abbattuto il tuo volto’?»
(Gen. 4:3-7).
Caino
è convinto di subire da Dio un torto perché egli «gradì
Abele e la sua offerta ma non Caino e la sua offerta»:
linguaggio il cui significato è di mettere in luce che la logica con
cui Dio si rapporta all’uomo è la logica delle motivazioni del
cuore e non di preferenze personali, e in seguito a questo equivoco
egli è preda dell’ira che lo sconvolge.
Il
testo biblico («ne
fu molto irritato e il suo volto era abbattuto»)
alla lettera dice che «per
Caino l’aria che usciva dal suo naso diventò fuoco e il suo volto
cadde per terra»
(nel greco dei LXX: synepesen,
da synpipto,
precipitare, collassare), come cade un vaso frantumandosi. L’ira
deforma Caino, ne distrugge l’identità e, da custode di Abele, lo
trasforma in omicida del fratello.
Se
per la filosofia greca l’ira è l’espressione dell’uomo
incapace di controllare le sue pulsioni, per la sapienza biblica,
l'ira è sintomo del rapporto deformato che l’uomo ha nei confronti
di Dio e del prossimo dove Dio si rispecchia come appello alla bontà
e alla responsabilità.
L’ira
– in tutte le sue forme, dalla parola sprezzante al gesto omicida –
è traccia di deformazione. Volontà di distruggere l’altro, l’ira
è negazione della responsabilità. Il contrario dell'ira, la
mitezza, è fare spazio all’altro. Nelle beatitudini («beati i
poveri», «beati gli affamati», «beati quelli che piangono»,
«beati i perseguitati», «beati i miti»), Gesù propone, a chi lo
segue, di spezzare la catena dell’odio e della violenza.
Invidia
Nel
suo viaggio Dante incontra nel purgatorio un’anima addolorata che
gli parla della malvagità degli abitanti della valle dell’Arno,
una «maledetta e sventurata fossa» divorata da livori e odi. Alla
domanda di svelargli il nome, l’anima si presenta:
Però
sappi ch’io son Guido del Duca.
Fu il sangue mio d’invidia sì
riarso,
Che, se veduto avessi uomo farsi lieto,
Visto m’avresti
di livore sparso
(Canto
XIV, 81-84).
L’invidia
è come una fiamma o fuoco divorante («fu
il sangue mio d’invidia sì riarso»)
che rende insopportabile perfino la visione della gioia dell’amico.
L'invidia,
etimologicamente rimanda all’etimo latino in-videre, che vuol dire
rivolgere lo sguardo verso l’altro, dove verso non è l’essergli
pro ma contro.
L’invidia
rende ostili invece che solidali, perché guarda i beni materiali
dell'altro. Per questo l’uomo non dovrebbe volgere il suo sguardo
verso (in-videre!) i beni materiali, bensì verso quel bene superiore
che è Dio, il quale, a differenza dei beni materiali, non diminuisce
se a goderne sono in tanti.
Per
la bibbia i beni materiali, creati buoni, come vuole con insistenza
il primo capitolo della Genesi, non sono in concorrenza con Dio che è
il bene supremo. Ma il bene di cui parla la bibbia, non è il bene
come oggetto da desiderare, ma il bene come bontà e sollecitudine
per l’uomo.
Giacomo
4:1,2
Da che cosa derivano le guerre e le liti che sono in mezzo a voi? Non
vengono forse dalle vostre passioni che combattono nelle vostre
membra? Bramate e non riuscite a possedere e uccidete; invidiate e non
riuscite ad ottenere, combattete e fate guerra!...
Per
la bibbia, i beni sono dono di Dio e, se dono, più che da
desiderare, sono da accogliere con gratitudine, con il grazie, e da
condividere, nella responsabilità.
L'invidia
nega la sovranità della bontà del Padre celeste, è negazione della
fiducia in Dio. È atto idolatrico con cui l’io si sostituisce a
Dio e dicendo implicitamente: «a prendersi cura di me non sei tu ma
sono io, le cose non sono un tuo dono ma sono mie, non è giusto che
gli altri godano di ciò di cui non godo io, non sopporto chi ha più
di me e io lo odio».
Idolatria
è rottura della relazione dell’uomo con Dio.
Per
la bibbia il mondo è per l’uomo solo a condizione che sia
accettato come dono di Dio. In caso contrario il mondo diventa
ostile. «L’amicizia
del mondo è nemica di Dio»,
e «chi
vuole essere amico del mondo si fa nemico di Dio»:
così dice Giacomo.
L’invidia
– il guardare ai beni altrui non scorgendo in essi la bontà di Dio
che li dona e chiama a ridonarli – infrange la relazione tra Dio e
il mondo ponendoli in contraddizione, infrange la relazione degli
uomini tra di loro.
L’invidia,
per la bibbia è traccia di questa triplice frattura tra Dio, il
mondo e l’uomo, e questa è la ragione per cui deve essere
combattuta con tutte le proprie forze.
Accidia
Accidia
è la traslitterazione del termine greco a-kedia che
etimologicamente vuol dire noncuranza, trascuranza, incuria, ma anche
tedio, noia, tristezza, depressione, angoscia, vuoto, ecc.. Termine
sconosciuto alla Bibbia, ma che fece molto discutere i primi padrio
della chiesa.
L’accidia,
per la bibbia, è l’indifferenza verso l'altro. La parola che viene
usata è philautoi «amanti
del proprio io» (2Tim. 3:2, egoisti).
Quando
un popolo è indifferente, allora sorgono le dittature e l’umanità
diventa un solo gregge, una folla senza volto; allora il bene è
uguale al male, il sacro uguale al profano.