giovedì 28 gennaio 2021

NON VI HANNO DETTO CHE...

 

Il distanziamento sociale non è il mezzo per fermare l’epidemia ma l’epidemia è il pretesto per imporre il distanziamento sociale.
Il distanziamento sociale non è il mezzo per fermare l’epidemia, ma uno strumento per imporre la digitalizzazione forzata della società, rendere impossibile la partecipazione politica attiva dei cittadini, cancellare la democrazia.
Le mascherine non sono un mezzo per fermare l’epidemia, ma uno strumento per promuovere il distanziamento sociale.
Le mascherine imposte nelle scuole elementari e medie non sono un mezzo per fermare l’epidemia, ma un modo per condizionare l’infanzia al distanziamento sociale.
I vaccini di massa obbligatori non sono un mezzo per combattere l’epidemia, ma lo strumento attraverso il quale imporre l’anagrafe sanitaria.
L’anagrafe sanitaria non è un mezzo per combattere l’epidemia, ma uno strumento per estendere il controllo del potere alle funzioni biologiche primarie delle persone.
La chiusura delle scuole e delle Università non è un mezzo per combattere l’epidemia, ma uno strumento per imporre in modo permanente la didattica a distanza.
La chiusura di musei, teatri, cinema, biblioteche non è un mezzo per combattere l’epidemia, ma uno strumento per distruggere la cultura e la possibilità che di essa vi sia una fruizione sociale.
La chiusura di bar, ristoranti e luoghi di incontro non è un mezzo per combattere l’epidemia , ma uno strumento per impedire ogni socialità.
La chiusura delle palestre e la sospensione delle attività sportive non è uno strumento per combattere l’epidemia, ma un modo per piegare e demoralizzare i popoli.
I lockdown totali o parziali non sono uno strumento per combattere l’epidemia, ma un modo per distruggere la piccola e media impresa.
Il reddito di cittadinanza, i sussidi, i ristori, i prestiti europei ed internazionali non sono uno strumento per alleviare le sofferenze del popolo, ma un modo per tenerlo buono e poterlo così più facilmente schiavizzare.
Il terrorismo mediatico di questi mesi non è uno strumento per combattere l’epidemia, ma un modo per far accettare ai popoli un pazzesco esperimento sociale.
Tutti gli strumenti messi in campo per combattere l’epidemia in questi mesi di sicuro non si propongono di salvare vite umane, forse mirano consapevolmente a far aumentare il numero dei decessi, al fine di imporre, attraverso il terrore, il distanziamento sociale.
Quando sarà chiaro tutto questo , si potrà tornare a preoccuparsi del coronavirus.
Prima di allora bisogna solo impedire che il mostruoso progetto di cui tutti noi saremo le vittime giunga a buon fine.
La società che si prospetta liquida tremila anni di civiltà occidentale e ci proietta in una barbarie senza precedenti.
L’unico dovere morale è impedire questa deriva.
Ammesso sia ancora possibile.

S.Dalla Torre


sabato 16 gennaio 2021

TI FARESTI VACCINARE DA...?

 Ti faresti vaccinare da chi ha rilasciato questa dichiarazione?

«Il mondo ha 6,8 miliardi di abitanti. Ci dirigiamo verso i 9 miliardi. Se facciamo un buon lavoro con i nuovi vaccini, la sanità, i servizi per la salute riproduttiva, possiamo ridurla del 10-15% [si riferisce alla Co2]»

(Bill Gates, principale finanziatore della Organizzazione Mondiale della Sanità, durante un suo discorso del febbraio 2010 al TED Talk).

Cosa significa che con i vaccini si può ridurre del 15% l'emissione di Co2?










I 7 VIZI CAPITALI

 

- superbia
- gola
- lussuria
- avarizia
- ira
- invidia
- accidia


Superbia


In italiano
superbo vuol dire letteralmente essere sopra, composto da super e dalla parola bo, quest’ultima di non facile derivazione etimologica che può rimandare sia al verbo greco baino, che vuol dire camminare, sia alla radice ebraica bo che vuol dire venire, sia al sanscrito bhu, che vuol dire essere e sia infine al verbo greco phaino che vuol dire apparire, potendo la ph trasformarsi facilmente in b come in befana, termine che proviene da epifania.

Se super-bo è chi si crede e si pone sopra l’altro, il contrario è pro-bo, che gli si pone di fronte e a suo favore. Superbia è l’insieme di desideri, pensieri, parole, progetti e azioni che si pongono in atto per affermare la propria volontà di superiorità.


Per esprimere il peccato o vizio della superbia il Nuovo Testamento ricorre soprattutto al termine
hyperēphanía (Mar. 7:22; Luca 1:51; Rom. 1:30; 2Tim. 3:2; Giac. 4:6: 1Piet. 5:5) che etimologicamente vuol dire «mostrarsi» o «apparire più e sopra», a volto tradotto anche con arroganza.

Ad esso la Bibbia contrappone il termine tapeinos, da cui l’italiano tapino, che allude a chi è infelice, povero, tribolato, misero e impotente (il cui significato è rimasto nella nostra lingua) su cui veglia lo sguardo di Dio (quest’ultimo significato scomparso però nella nostra lingua). Nella sua lettera Giacomo afferma che lo Spirito di Dio «resiste ai superbi (hyperēphánois), agli umili (tapeinois) invece dà la sua grazia» (Giac. 4:6). Il termine utilizzato da Pietro (Dio resiste ai superbi, ma dà grazia agli umili) per dire che Dio «resiste ai superbi» è antitássetai la cui radice verbale vuol dire «mettere» o «disporre le cose in ordine». Chi si costituisce al di sopra degli altri viola l’ordine divino della grazia, dove ciò che si è e ciò che si ha, lo si è e lo si ha per grazia, non perché conquistato ma perché donato.

È proprio qui che la Bibbia individuare la radice della superbia: nel sovvertimento dell’ordine della grazia. L'uomo nega la sua origine e si sostituisce a Dio, prendendone il posto. In questa radice la Bibbia ravvisa l’essenza stessa del peccato, di cui parla il terzo capitolo della Genesi.

Nel giardino dell’eden all’uomo è dato di fruire di tutti i frutti degli alberi: gli è dato, cioè donato. Di un unico albero non può mangiare, quello al centro del giardino. Toccare e mangiare di quest’albero è morire. La superbia, per la Bibbia, è l’autocostituirsi dell’uomo come padrone che su tutto e tutti, cose e persone, imprime il suo marchio di dominio e di possesso. Ma negando la relazione di grazia, dal quale è originato e amato, l’uomo precipita in una esistenza che non gli è più congeniale, come mostra il seguito del racconto biblico della Genesi in cui la donna acconsente alla «voce del serpente»: «Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture».

Negarsi alla grazia di Dio, non è entrare nella felicità, come si illudeva la donna al cui sguardo l’albero era apparso «buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza», ma perderla, come vogliono le immagini dell’apertura degli occhi, della nudità e del tentativo di occultarla con le foglie.

Il superbo si appropria della conoscenza del bene e del male, pretendendosi lui stesso giudice come Dio. È quanto constata Dio stesso dopo la disobbedienza dell'uomo: «Ecco l’uomo è diventato come uno di noi, per la conoscenza del bene e del male» (Gen. 3:22). Il superbo, per la Bibbia, è colui che prende il posto di Dio mettendosi sopra a tutto e sopra a tutti e, in questo senso, facendosi veramente «come Dio». La superbia, non è la negazione di Dio, ma ne è l’appropriazione, cosa paradossale per cui ne è la contraffazione e la parodia.

Mentre Dio è sopra a tutto e sopra a tutti per promuoverne il bene, non curandosi del proprio, il superbo si costituisce sopra a tutto e sopra a tutti, non per il loro bene ma per curare il proprio bene. L’essenza della superbia è in questa trasmutazione del bene che, da bene che l’io deve all’altro, si perverte in bene che l’altro deve all’io. Questo cancella la realtà stessa del bene e il mondo, creato per il bene, si degrada in giungla di interessi ed egoismi da difendere con la forza.

Per questo la superbia è il primo dei vizi e coincide con l’essenza stessa del peccato e di ogni peccato. È il peggiore dei peccati, perché per sua natura rappresenta un’avversione nei confronti di Dio e dei suoi comandamenti. La superbia è la fonte di tutti gli altri peccati, perché è il primo per intenzione.

La superbia con il tempo si trasforma in stile di vita e di comportamento. Stile di vita e di comportamento che si esprimono in una molteplicità di modi che vanno dall’orgoglio alla vanagloria, dall’autosufficienza al disprezzo, dal narcisismo all’autoindulgenza, dall’ambizione al vanto, dall’autogiustificazione all’irresponsabilità, all’insofferenza, all’aggressione, alla cattiveria e al vittimismo; si nasconde in una pluralità di forme che vanno dal carrierismo, alla ricerca del potere, alla cura del proprio corpo, all'apparente altruismo o false opere di beneficenza e può anche tradursi in ideologie, fanatismo, razzismo, ecc.

Se il peccato è dentro, quali indicazioni umane possono aiutare a prenderne coscienza? Si può partire da una riflessione-analisi su casi «incarnati»:

  • chi si offende facilmente e stenta a perdonare;
    - chi si compiace di essere sempre al centro dell’attenzione, ammirato, lodato, coccolato;
    - chi soffre e si irrita se viene rimproverato o biasimato;
    - chi non pensa ad altro che a far bella figura, a comparire, ad emergere;
    - chi vede tutto bello in sé e tutto brutto negli altri;
    - chi vuole avere sempre ragione e nelle discussioni non cede mai;
    - chi parla volentieri e spesso di sé, e il pronome “io” appare sempre nel proprio parlare;
    - chi pretende di dar consigli a tutti, senza accettarne da nessuno...

- ci si vanta delle proprie buone qualità come se fosse merito proprio, dimenticando ciò che afferma la parola di Dio: «Ogni dono perfetto viene dall’alto, discendendo dal Padre dei lumi» (Giac. 1:17), mentre di veramente «proprio» c’è solo il peccato;

- ci si gloria dei pregi che si hanno, come se non fossero talenti donati da Dio;
- si guardano gli altri con forme di un certo disprezzo che denota la propria superiorità.

  • Il messaggio cristiano taglia alla radice la pianta viziosa della superbia, e la orienta nella giusta direzione: «Ciascuno di voi consideri gli altri superiori a se stesso» (Fil. 2:3). Riconoscere la grandezza di sé è inseparabile dal riconoscere la grandezza dell’altro; la stima di sé è inseparabile dalla stima dell’altro.

Una sconfitta, un’umiliazione prima o poi arriva a smascherare l’eccessiva presunzione di sé.

Quali rimedi offrire a una tentazione sempre presente?


- Innanzitutto una vita di preghiera.


Gola

Il cibo è essenziale per la vita dell'uomo. Per questo tutte le religioni, da quelle più primitive a quelle più complesse e strutturate, da sempre hanno istituito un legame profondo tra il divino e le fonti di sussistenza dalle quali dipende la sopravvivenza delle persone.


Il cibo non è solo sopravvivenza, ma è anche piacere e benessere. Dio ha chiamato Abramo e ha liberato Israele dall’Egitto per fargli dono di una terra «
dove scorrono latte e miele» e dove Israele può abitarvi solo con la coscienza di restarvi sempre come ospite ospitato da Dio che ne è il proprietario (Lev. 25:23). Questo legame tra Dio e il cibo è ugualmente importante nella tradizione cristiana se solo si pensa che nella preghiera che Gesù ci ha lasciato, il Padre Nostro, una delle richieste che rivolgiamo a Dio è «dacci oggi il nostro pane quotidiano».

Il cibo è dono di Dio all’uomo, e il «pane» e «vino» della celebrazione eucaristica ci dice che l’uomo ha bisogno, oltre che del pane e del vino, di altre cose, perché il pane e il vino sono rappresentativi anche di qualcos'altro.

L’immagine del «banchetto sacro», comune a molte religioni, secondo la quale mangiare alla presenza di Dio allude a qualcosa di straordinario, essa dice che il mangiare è anche una relazione di amore.

Qui risiede la differenza abissale tra il mangiare da soli, in compagnia solo di se stesso, e il mangiare da invitati, dove si alla presenza di altri. Dire che il mangiare è atto sacro, è lungi dall’essere affermazione ingenua o irrazionale.

Il rapporto deformato con il cibo si ha quando viene a mancare la coscienza di tutto questo. Il peccato o vizio della gola è quando il cibo, da fonte di piacere diventa fonte di malessere o perché si mangia troppo o perché si mangia poco o perché si mangia male. Per questo, tutte le culture hanno fissato delle modalità (come mangiare e con chi mangiare), i tempi (quando mangiare) e i ritmi (quante volte mangiare).

Il peccato di gola, la Bibbia lo pone sotto il nome di «dissolutezza», che è il contrario dell'autocontrollo e del dominio, viene a mancare la giusta misura che consiste nel non oltrepassare il limite, e la mancanza di temperanza, con cui, al momento opportuno si sa decidere, come vuole la radice del termine (da temnein, tagliare), dicendo basta.

Ma questo non basta. Il giusto rapporto dell’uomo con il cibo esige altro: la riconoscenza, cioè la consapevolezza che Dio si prende cura dei nostri bisogni, e la giustizia, con cui per amore si condivide ciò che si ha con chi non l’ha.



Lussuria


Il Fedro di Platone dice che l’eros è lacerazione dell’anima.

Aristofane nel Simposio dice che l’eros è forza che «ci riporta all’antica natura e cerca di fare di due uno (en ek dyoin) e di risanare l’umana natura» per cui «ciascuno di noi è come una contromarca di uomo (symbolon), diviso com’è da uno in due (ex enos dyo), come le sogliole» (Simposio 191 D)?

Dopo aver creato l’uomo e averlo collocato nel giardino dell’eden, Dio si disse e gli disse: «Non è bene che l’uomo sia solo. Gli voglio creare un aiuto che gli sia simile» (Gen. 2:18). La traduzione più fedele al testo originale suona: «Non è cosa buona essere l’uomo solo per se stesso. Gli farò un aiuto che sia il suo «di fronte». La ragione per la quale, secondo il testo biblico, Dio crea la donna non è, come nel mito platonico, di ricomporre l’unità originaria ma anzi di introdurvi una rottura all’unità originaria (solitudine), la relazione tra l’io e il tu. La donna, per il testo biblico è colei che viene messa di fronte all'uomo e gli impedisce di chiudersi in se stesso e restare incatenato al suo io.

Lungi dall’essere ricomposizione dell’unità perduta, l’eros, per la bibbia, è il suo superamento. È l’evento dove all’uomo è dato di uscire da se stesso grazie all’alterità femminile e dove tra i due si istituisce una relazione, e una relazione aperta che si apre al terzo - il figlio, e così si sviluppa nella fecondità, nella bontà, nella gratuità, nell’essere per l’altro e non più per se stesso.

Se l’eros è relazione, e relazione sempre aperta, che non si chiude mai su se stessa, ciò che, per la bibbia, lo deforma e lo trasforma in lussuria, è la negazione di questa relazione e della sua apertura al terzo. Parlando dell’eros come apertura al terzo, non ci si riferisce alla dimensione biologica – puro materialismo – ma alla capacità di uscire fuori dal proprio io di andare oltre la propria identità: è la paternità.

Coloro che non hanno figli non vi debbono in alcun modo vedere un disprezzo. Si può avere nei confronti degli altri un atteggiamento paterno. Considerare altri come proprio figlio.

La lussuria, per la quale la bibbia ricorre a termini quali porneia o dissolutezza, è una contraffazione dell'eros: l’eros ridotto alla sola genitalità o piacere; l’eros degradato alla nuda sfera biologica; l’eros trasformato in merce di scambio; l’eros strumentalizzato per la pubblicità e vendita di prodotti commerciali; l’eros venduto, umiliato sulle strade della prostituzione, ecc..

La lussuria crede che il sesso sia la via per la felicità. Questo conduce a una personalità degradata. Ciò è evidente fin dai primi racconti biblici; dal tempo del diluvio essa è un fenomeno tipico della degradazione umana (Genesi 6; Gen. 18 Sodoma e Gomorra.

La fede cristiana vuole salvare l’essere umano dalle trappole della falsa gioia, e della fatua felicità per indirizzarlo là dove veramente la gioia può essere trovata. Scopo ultimo della vita umana dare gloria a Dio. Ma spesso il sesso diventa un sostituto di Dio. Per vincere la lussuria, bisogna convertire la propria attenzione orientandola verso Dio.



Avarizia


Il denaro è il bene più desiderato perché è la condizione per l’acquisto e il godimento di ogni altro bene. Il denaro è al centro dell’interesse delle famiglie e delle società e del mondo. Per questo è intorno ad esso che ruotano le istituzioni politiche, ed è per il suo raggiungimento che si commettono ingiustizie e violenze. Consapevole del potere negativo del denaro, Gesù, nel vangelo, dice: «Guai a voi, ricchi, perché avete già la vostra consolazione. Guai a voi che ora siete sazi, perché avrete fame. Guai a voi che ora ridete, perché sarete afflitti e piangerete. Guai quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti facevano i loro padri con i falsi profeti» (Luca 6:24,25).

Non è una condanna della ricchezza in quanto tale. Infatti, nel VT la ricchezza era considerata una benedizione e segno di protezione divina, come testimonia la storia dei patriarchi: Abramo «era molto ricco in bestiame, argento e oro (Gen. 13:2), Isacco «crebbe tanto in ricchezze fino a diventare ricchissimo» (Gen. 26:13) e Giacobbe «si arricchì oltre misura e possedette greggi in grande quantità, schiavi e schiave, cammelli e asini» (Gen. 30:43).

Il Nuovo Testamento, invece, mette in luce la ragione che trasforma la ricchezza da benedizione in maledizione: la volontà di possesso e di appropriazione che ne cancella l'aspetto di dono di Dio all’uomo e di dono dell’uomo all’altro uomo. L’avarizia, per la bibbia, è amore per la ricchezza in quanto tale, voluta e accumulata, e cancellata come dono proveniente da Dio e destinata al soccorso del prossimo.

I termini biblici per avarizia sono pleonexia (Mar. 7:22; Rom. 1:29; 2Cor. 9:5), il volere avere (ekein) di più e sempre di più (pleon), e philargyria (1Tim. 6:10; cfr. Luca 16:14; 2Tim. 3:2) che letteralmente vuol dire amore (philia) per il denaro (argyria). Per Paolo, l’avarizia è quel male dal quale derivano tutti gli altri mali: «radice di tutti i mali è l’amore al denaro (riza gar panteon ton kakon estin e philargyria): per tale sfrenato desiderio alcuni hanno deviato dalla fede e si sono procurati molti tormenti» (1Tim. 6:10).

Al popolo che sta per entrare nella terra promessa, Dio ordina: «Mangerai a sazietà e benedirai il Signore Dio tuo a causa del paese fertile che ti avrà dato» (Deut. 8:10). Su questo imperativo, la tradizione ebraica ha istituito la sua prassi della benedizione, cioè non si deve prendere possesso e godere delle cose se prima non si pronuncia la preghiera di benedizione.

Con la benedizione, l’uomo biblico riconosce che ciò di cui si nutre non è suo ma di Dio e, se di Dio, non può appropriarsene e rivendicare il diritto di proprietà. Ciò che, per la bibbia, fa dell’avarizia una patologia e la traSforma in peccato e vizio, è la negazione della gratuità, e la ragione per cui Paolo la ritiene la radice di tutti i mali, è perché, negando la gratuità, nega la fiducia in Dio. Scrive l’apostolo: «per tale sfrenato desiderio [della philargyria o avarizia] alcuni hanno deviato dalla fede e si sono procurati molti tormenti» (1Tim. 6:10). L’avarizia è tradimento della fiducia nella bontà del Padre celeste che, se «veste l’erba del campo» (cfr Mat. 6:31) e «nutre gli uccelli del cielo» (cfr Mat. 6:26), tanto più si preoccupa e provvede ai suoi figli (Mat. 6:30ss).

Gli avari si autoprocurano molti tormenti, letteralmente «trafiggono se stessi con molti dolori», perché si escludono dalla logica della bontà verso il prossimo. Il ricco Epulone, «vestiva di porpora e di bisso e tutti i giorni banchettava» (Luca 16:19) incurante del «povero Lazzaro coperto di piaghe e bramoso di sfamarsi», Gesù dice che «morì» e andò «all’inferno tra i tormenti» (Luca 16:23). Il tormento dell’inferno al quale è condannato il ricco della parabola è il tormento dell’avaro che, nella sua avarizia, è sommerso dal grido di rimprovero dei poveri lazzari ai quali quella ricchezza sarebbe dovuta essere in parte destinata.


Ira

L'ira travolge e acceca la ragione.

Per la tragedia greca la ragione dell’«ira» non va ricercata nell’uomo, ma nel volere degli dèi che, suscitandola, realizzano i loro disegni. Il primo verso del poema omerico dell’Iliade ha come soggetto l'ira: «Cantami, o diva, del Pelide Achille/l’ira funesta») attribuita al volere di Giove («così di Giove/l’alto consiglio s’adempia»).

Per il filosofo Aristotele, invece, l’ira è un eccesso di reazione al comportamento altrui.

Per la bibbia l’ira è un atto della libera volontà umana. L’ira, ha come estrema conseguenza l’omicidio. Il primo omicidio della storia è la messa in scena dell’ira di Caino:

«Dopo un certo tempo, Caino offrì frutti del suolo in sacrificio al Signore; anche Abele offrì primogeniti del suo gregge e il loro grasso. Il Signore gradì Abele e la sua offerta, ma non gradì Caino e la sua offerta. Caino ne fu molto irritato e il suo volto era abbattuto. Il Signore disse allora a Caino: ‘Perché sei irritato e perché è abbattuto il tuo volto’?» (Gen. 4:3-7). 

Caino è convinto di subire da Dio un torto perché egli «gradì Abele e la sua offerta ma non Caino e la sua offerta»: linguaggio il cui significato è di mettere in luce che la logica con cui Dio si rapporta all’uomo è la logica delle motivazioni del cuore e non di preferenze personali, e in seguito a questo equivoco egli è preda dell’ira che lo sconvolge.

Il testo biblico («ne fu molto irritato e il suo volto era abbattuto») alla lettera dice che «per Caino l’aria che usciva dal suo naso diventò fuoco e il suo volto cadde per terra» (nel greco dei LXX: synepesen, da synpipto, precipitare, collassare), come cade un vaso frantumandosi. L’ira deforma Caino, ne distrugge l’identità e, da custode di Abele, lo trasforma in omicida del fratello.

Se per la filosofia greca l’ira è l’espressione dell’uomo incapace di controllare le sue pulsioni, per la sapienza biblica, l'ira è sintomo del rapporto deformato che l’uomo ha nei confronti di Dio e del prossimo dove Dio si rispecchia come appello alla bontà e alla responsabilità.

L’ira – in tutte le sue forme, dalla parola sprezzante al gesto omicida – è traccia di deformazione. Volontà di distruggere l’altro, l’ira è negazione della responsabilità. Il contrario dell'ira, la mitezza, è fare spazio all’altro. Nelle beatitudini («beati i poveri», «beati gli affamati», «beati quelli che piangono», «beati i perseguitati», «beati i miti»), Gesù propone, a chi lo segue, di spezzare la catena dell’odio e della violenza.


Invidia

Nel suo viaggio Dante incontra nel purgatorio un’anima addolorata che gli parla della malvagità degli abitanti della valle dell’Arno, una «maledetta e sventurata fossa» divorata da livori e odi. Alla domanda di svelargli il nome, l’anima si presenta:

Però sappi ch’io son Guido del Duca.
Fu il sangue mio d’invidia sì riarso,
Che, se veduto avessi uomo farsi lieto,
Visto m’avresti di livore sparso

(Canto XIV, 81-84).

L’invidia è come una fiamma o fuoco divorante («fu il sangue mio d’invidia sì riarso») che rende insopportabile perfino la visione della gioia dell’amico.

L'invidia, etimologicamente rimanda all’etimo latino in-videre, che vuol dire rivolgere lo sguardo verso l’altro, dove verso non è l’essergli pro ma contro.

L’invidia rende ostili invece che solidali, perché guarda i beni materiali dell'altro. Per questo l’uomo non dovrebbe volgere il suo sguardo verso (in-videre!) i beni materiali, bensì verso quel bene superiore che è Dio, il quale, a differenza dei beni materiali, non diminuisce se a goderne sono in tanti.

Per la bibbia i beni materiali, creati buoni, come vuole con insistenza il primo capitolo della Genesi, non sono in concorrenza con Dio che è il bene supremo. Ma il bene di cui parla la bibbia, non è il bene come oggetto da desiderare, ma il bene come bontà e sollecitudine per l’uomo.

Giacomo 4:1,2 Da che cosa derivano le guerre e le liti che sono in mezzo a voi? Non vengono forse dalle vostre passioni che combattono nelle vostre membra? Bramate e non riuscite a possedere e uccidete; invidiate e non riuscite ad ottenere, combattete e fate guerra!...

Per la bibbia, i beni sono dono di Dio e, se dono, più che da desiderare, sono da accogliere con gratitudine, con il grazie, e da condividere, nella responsabilità.

L'invidia nega la sovranità della bontà del Padre celeste, è negazione della fiducia in Dio. È atto idolatrico con cui l’io si sostituisce a Dio e dicendo implicitamente: «a prendersi cura di me non sei tu ma sono io, le cose non sono un tuo dono ma sono mie, non è giusto che gli altri godano di ciò di cui non godo io, non sopporto chi ha più di me e io lo odio».

Idolatria è rottura della relazione dell’uomo con Dio.

Per la bibbia il mondo è per l’uomo solo a condizione che sia accettato come dono di Dio. In caso contrario il mondo diventa ostile. «L’amicizia del mondo è nemica di Dio», e «chi vuole essere amico del mondo si fa nemico di Dio»: così dice Giacomo.

L’invidia – il guardare ai beni altrui non scorgendo in essi la bontà di Dio che li dona e chiama a ridonarli – infrange la relazione tra Dio e il mondo ponendoli in contraddizione, infrange la relazione degli uomini tra di loro.

L’invidia, per la bibbia è traccia di questa triplice frattura tra Dio, il mondo e l’uomo, e questa è la ragione per cui deve essere combattuta con tutte le proprie forze.



Accidia

Accidia è la traslitterazione del termine greco a-kedia che etimologicamente vuol dire noncuranza, trascuranza, incuria, ma anche tedio, noia, tristezza, depressione, angoscia, vuoto, ecc.. Termine sconosciuto alla Bibbia, ma che fece molto discutere i primi padrio della chiesa.

L’accidia, per la bibbia, è l’indifferenza verso l'altro. La parola che viene usata è philautoi «amanti del proprio io» (2Tim. 3:2, egoisti).

Quando un popolo è indifferente, allora sorgono le dittature e l’umanità diventa un solo gregge, una folla senza volto; allora il bene è uguale al male, il sacro uguale al profano.