venerdì 28 giugno 2019

IL SENSO DELLA SOFFERENZA


Giobbe è un libro molto lungo, 42 capitoli, e sono molto complessi, molto difficili proprio nella logica del discorso. Ma soprattutto perché questi capitoli sono molto problematici proprio per il tema che affronta, perché è un tema difficile, forse anche senza soluzione, un tema che mette in crisi, perché il tema del libro di Giobbe è la sofferenza dell’innocente.

È una sofferenza soprattutto senza spiegazione ultima, perché anche quando ci fosse qualche spiegazione - ed è quello che il libro di Giobbe cerca di trovare - anche quando sembra di trovare una qualche spiegazione, però c’è sempre una sproporzione assoluta.

Il libro di Giobbe non è solo un libro che si interroga sul senso del dolore in generale e del dolore dell’innocente in particolare, ma affronta la domanda terribile su cosa fa Dio davanti al dolore dell’innocente. Ci troviamo davanti a delle violenze che sono inaccettabili, ci troviamo davanti alla morte e la domanda è: “Ma Dio dov’è?”. Il libro di Giobbe è un libro che parla di Dio che si rivela in riferimento a ciò che nell’uomo mette in crisi il suo rapporto con Lui: il problema del dolore.

Il libro è costruito in modo strano, perché i primi due capitoli sono scritti in prosa, poi dal terzo capitolo fino ai primi versetti del cap. 42 tutto è scritto in poesia e poi alla fine del capitolo 42 tutto torna a essere scritto in prosa. Queste due parti in prosa - inizio e fine, prologo ed epilogo - si potrebbero leggere da sole senza la parte in mezzo:

Giobbe è un uomo buono e benedetto, vive in una situazione di benedizione, però in questa situazione viene colpito da prove, disgrazie, che arrivano fino a toccargli la salute e la morte dei figli. Giobbe rimane fedele, continua a perseverare nella sua giustizia e nella sua bontà e allora - ecco la parte finale del libro, ecco l’epilogo - Dio gli restituisce tutto ciò che ha perso, lo premia per la sua fedeltà e quindi “tutti vissero felici e contenti”. Detta così è una favoletta, un racconto edificante, che deve servire a dire: “Anche nel dolore continuate a rimanere fedeli a Dio e vedrete che poi il Signore si farà vedere e in qualche modo vi ricompenserà”.

Questo sembra essere il racconto del libro di Giobbe. Solo che, in mezzo, dal capitolo 3 fino ai primi versetti del capitolo 42 - cioè il vero libro di Giobbe, quello che è scritto in poesia - qui Giobbe è completamente diverso: non è il Giobbe paziente che davanti alle disgrazie e alla sofferenza, accetta tutto dalle mani di Dio, continuando a benedire Dio, ma è il Giobbe che invece protesta, che lotta con Dio, che dice “Non va bene”. Vuole costringere Dio a dare una risposta a quella terribile domanda: “Ma perché tutto questo? E tu, Dio, cosa fai?”

Posso brevemente percorrere il contenuto più importante di questo libro per cercare però di averne delle chiavi di interpretazione, per cercare di capire che messaggio vuole dare.

Nel prologo Giobbe viene presentato come uomo perfetto. Non ci viene dato il contesto storico di Giobbe, ma solo quello geografico: si dice che abitava nel territorio di Uz, che non sappiamo nemmeno dove sia. Probabilmente si riferisce al territorio di Edom - e il particolare può anche essere interessante perché Edom era il territorio di Esaù, il fratello di Giacobbe, e dunque fuori di Israele. È come se questo Giobbe situato fuori di Israele, questo Giobbe visto ironicamente come discendente di Esaù, avesse molto da insegnare al discendente di Giacobbe.

Che Giobbe sia messo fuori dai confini di Israele, anche se poi parla sempre come un israelita, serve probabilmente a dare alla figura di Giobbe una dimensione universalistica, valida per tutta l’umanità.

Comunque sia, questa mancanza di contesto storico e questa apertura universalistica, hanno portato i rabbini d’Israele a leggere il libro di Giobbe non in senso storico, ma come se fosse una parabola, dove Giobbe rappresenta ogni uomo. E allora ogni uomo che legge il libro di Giobbe è chiamato a identificarsi in Giobbe, sapendo che il problema di Giobbe è il problema di ogni uomo. Non leghiamo Giobbe a epoche particolari, e a luoghi particolari: il suo problema è il problema di ogni uomo, in ogni luogo e in ogni tempo.

Cosa racconta il prologo? Questo uomo perfetto - perfetto non come Dio, ma perfetto come uomo, cioè giusto, timorato di Dio, che stava lontano dal male - godeva di grande benedizione da parte di Dio, proprio per la sua bontà; dunque aveva molti figli e figlie, la fecondità indica la pienezza di vita, godeva di molti beni, di molto bestiame. Giobbe vive un rapporto bello, facile con la vita, un rapporto benedetto dalle ricchezze e, soprattutto, dall’armonia e dalla comunione sia familiare, sia con tutti quelli che Giobbe ha intorno a sé, con tutti i suoi concittadini.

Questa situazione di grande armonia era condivisa anche dai figli che la vivevano tra di loro – è scritto, infatti, che ogni fratello faceva un banchetto invitando anche tutti gli altri, anche le sorelle, sottolineando così una ricchezza che non si chiude nell’egoismo, ma si offre in banchetti vicendevoli. Offrire banchetti ha un valore simbolico, vuol dire aprirsi agli altri, non semplicemente divertirsi, significa condividere la vita, perché il cibo rappresenta l’elemento vitale più importante per l’uomo e mangiare vuol dire assumere cibo e farlo diventare nostra vita.

È il cibo che nutre la vita ed è il cibo che, assimilato, ci permette di vivere. Condividere il cibo vuol dire condividere ciò che ti fa vivere: dal punto di vista simbolico, quando questi preparavano un banchetto e invitavano tutti gli altri, c’era una vera condivisione di vita, che i fratelli vivevano tra di loro in armonia e in armonia con il padre, Giobbe, che alla fine di ogni ciclo di banchetti radunava i suoi figli e offriva sacrifici al Signore, perché se qualcuno dei figli avesse sbandato un po’ sarebbe stato Giobbe a garantirli dinanzi a Dio, per proteggere il rapporto dei suoi figli con Dio.

Dentro questa armonia si inserisce una nota stonata perché Dio sta ricevendo i suoi ministri e tra loro c’è anche il satàn - Satana, che va a cercare il “pelo nell’uovo” - che dice: “È vero che Giobbe è un uomo giusto, non lo si può negare: ma come si può essere certi che sia giusto perché ama la giustizia, e che tema Dio perché ama Dio? Non potrebbe essere che è giusto e teme Dio solo perché ha una vita benedetta ed è felice?” È facile amare Dio quando si sta bene.

In poche parole, è una domanda che faremmo bene a porci anche noi: la nostra fede, il nostro rapporto con Dio sono questione di benessere, di buona salute, di felicità o dipende dal fatto che Dio è tutto per noi, che è la persona più importante con la quale possiamo metterci in relazione nella nostra vita e, di conseguenza, cerchiamo Dio perché capiamo che lui è il bene assoluto e non perché ci dà dei beni materiali?

La crisi che satana vuole provocare è: la religiosità di Giobbe è interessata o disinteressata? Questo è il problema, uno dei problemi tipici dell’uomo: Noi cerchiamo di vivere in grazia di Dio solo perché abbiamo paura di ciò che potrebbe succedere, oppure perché lo amiamo? Crediamo in Lui perché comunque ci conviene? Questa è la domanda che mette in gioco il concetto stesso di Dio, ed è la domanda che pone satana: “Prova a togliere a Giobbe tutto quello che ha e vediamo se continuerà a benedirti”. Dio dice: “Io non ho nessun problema, mi fido di Giobbe, fai quello che vuoi, levagli quello che ha”. Giobbe perde tutto, compresi i figli, ma continua a benedire: «Nudo uscii dal grembo di mia madre, e nudo vi ritornerò. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore!» (1:21).

Satana non si arrende, dice: “Ti è andata bene, perché gli hai tolto i figli e le cose, ma non l’hai toccato veramente nella vita, prova a toccarlo nella carne e vedi se continua a benedirti!”. Giobbe viene toccato nella carne, una malattia che lo abbrutisce fisicamente. A questo punto arrivano tre amici che sono venuti a sapere della grave situazione di Giobbe, fanno una specie di lutto per sette giorni e, dice il testo, stanno in silenzio e non parlano perché vedevano che il suo dolore era molto grande (2:13).

Questo è un insegnamento importante: davanti a un dolore molto grande, l’unico atteggiamento di sapienza è tacere, non cercare parole consolatorie che non vengono anch’esse da un’esperienza di dolore. Davanti a un uomo che soffre, le uniche parole consentite sono le parole che può dire qualcuno che comprende pienamente quel dolore e lo condivide, cioè che parla da dentro a quel dolore. Se non abbiamo il coraggio di entrare dentro quel dolore, se non abbiamo il coraggio di entrare dentro la disperazione di chi soffre, allora l’unica strada di sapienza è tacere. E gli amici tacciono.

Poi inizia la parte in poesia dove Giobbe inizia a parlare, e incominciano a parlare anche gli amici. Abbiamo dunque un Giobbe paziente nel prologo e poi nella parte in poesia un Giobbe che comincia a parlare maledicendo la vita e lottando con Dio. E abbiamo gli amici del prologo che saggiamente tacciono all’inizio, ma che poi nella parte in poesia si mettono a parlare, ma non condividendo il dolore di Giobbe. Si mettono a parlare ma dall’esterno, facendo quello che la saggezza suggerisce di non fare e dicendo cose non giuste.

Ci sono tre cicli di dialoghi in cui Giobbe parla e gli amici uno dopo l’altro parlano e Giobbe risponde. Ma Giobbe più che parlare con gli amici si mette a lottare con Dio, fino a quando finalmente Dio gli risponderà.

Cerchiamo di capire cosa ci mette davanti questa parte del libro. Innanzitutto Giobbe inizia al capitolo 3 a parlare maledicendo il giorno della sua nascita e la notte del suo concepimento, dove questa maledizione è desiderio di distruzione. Giobbe maledice, ma in realtà quello che Giobbe dice è “perisca il giorno che io nacqui e la notte che disse: È concepito un maschio” (3:3). Giobbe sta dicendo che non vorrebbe essere mai nato. E siccome invece è nato, allora poi, sempre in questo stesso capitolo, si mette a sognare di essere già morto e di essere nello Sheol e finalmente di riposare.

Giobbe innanzitutto - ed è fondamentale - non maledice Dio: vuole distruggere la sua vita, vuole esserne fuori, perché questa vita è diventata insopportabile, però non maledice Dio. Desidera di uscire da una situazione insopportabile che però, nonostante tutto, invece accetta, perché Giobbe dice che non vorrebbe essere mai nato, poi dice che vorrebbe essere morto, però in realtà rimane vivo, non si suicida, non può cancellare la sua vita. Potrebbe uscirne uccidendosi, ma questo nemmeno lo sfiora come pensiero: Giobbe è davanti a una situazione che dichiara insostenibile, perciò accusa Dio, però continua a vivere chiedendo a Dio di spiegargli perché mai gli stia succedendo tutto questo.

Gli amici cominciano a parlare e cominciano davanti a questa denuncia di Giobbe, che è la denuncia del suo assurdo dolore. I loro discorsi che dovrebbero essere consolatori, dovrebbero secondo loro riportare Giobbe sulla “retta via”. Abbiamo in questi tre cicli di discorsi, da una parte la posizione degli amici, dall’altra la posizione di Giobbe, che sono posizioni completamente diverse.

La posizione degli amici è quella tradizionale, retributiva, che diceva: se uno fa il bene, starà bene, se uno fa il male, starà male. Dunque se tu vedi uno che sta bene puoi tranquillamente dire che lui è buono, se vedi uno che sta male puoi dire che lui è cattivo.

Una posizione di questo tipo oltre a essere continuamente smentita fin dall’inizio della storia, fin dai primi capitoli della Genesi, dove il primo a morire è proprio l’unico giusto che c’era, Abele, oltre a essere contraddetta dalla realtà dei fatti, è contraddetta anche da Giobbe, perché Giobbe è innocente, è giusto.

Gli amici prendono la teoria tradizionale della retribuzione e la applicano a Giobbe, e la applicano in modo semplicistico e automatico. Ti comporti bene? Avrai il bene. Ti comporti male? Avrai il male. No! La vita è più complicata e non funziona così.

Questa teoria tradizionale a cui si rifanno gli amici che poi è la teoria che troviamo nei Profeti, nei libri Sapienziali, di per sé non è sbagliata, ciò che è sbagliato è applicarla in modo semplicistico e automatico, come causa ed effetto. Fai il bene e stai bene, fai il male e stai male. Non è così semplice.

In realtà questa teoria si appoggia su due punti fondamentali. Il primo è la consapevolezza che le scelte etiche dell’uomo hanno una loro forza intrinseca che prima o poi si manifesta. Il che vuol dire che se tu fai il bene stai mettendo in circolazione una energia di bene e questa ha una sua forza. Al contrario se tu fai il male metti in circolazione una energia di male, e questa ha una sua forza. Quindi fare il male crea in qualche modo il male, crea una situazione di male, e fare il male fa male anche a chi fa il male. Chi commette il male, fa del male anche a se stesso. Questa è una prima consapevolezza.

C’è poi la certezza che l’uomo è inserito dentro un progetto salvifico di Dio che comprende anche il male e che, siccome è progetto salvifico di Dio, vince il male trasformandolo in bene.

Questa è la teoria retributiva e gli amici invece la prendono in modo semplicistico, e questo non funziona. Ma in realtà, quando si commette l’ingiustizia, quando c’è un peccato, il modo di rispondere non è punire il colpevole, andare in tribunale, andare dal giudice e far sì che il colpevole sia punito, perché tu in questo modo, impedisci al colpevole di continuare a fare del male, però non lo converti, e quindi non risolvi il vero problema.

Il vero modo di rispondere al male, dice la Scrittura, è di rispondere con il bene, con l’amore. Quindi il mondo giuridico presentatoci da Gesù prevedeva che chi aveva ricevuto il male non mettesse di mezzo il giudice, ma andasse direttamente dal colpevole per accusarlo di quello che stava facendo, e questa accusa aveva lo scopo di aiutare il colpevole a capire che facendo il male, lui si stava facendo del male. D’altro canto la parte lesa che aveva ricevuto il male, perdonando il male, dimenticava quel male e diventava preoccupata che il colpevole smettesse di farsi del male, smettesse dunque di essere colpevole e si potesse così tornare ad essere in comunione.

Questa è vera giustizia perché si risponde al male con il bene, si risponde al peccato perdonandolo e mettendo in opera tutto quello che si può per far sì che questo peccato smetta di esserci, perché il peccatore capendo quello che sta facendo smetta di fare il male e così il male non ci sarà più, non ci sarà più l’ingiustizia, quindi ci sarà la vera giustizia, e non ci sarà neanche più chi fa il male, perché chi fa il male avendo capito si lascia convertire, si lascia perdonare e smette di fare il male. Ecco il trionfo della giustizia, l’ingiustizia non c’è più e non c’è più chi fa del male, non serve nemmeno più punirlo.

L’Antico Testamento applica tutto questo a Dio dicendo che Dio si comporta così con l’uomo per aiutarlo a capire che sta facendo il male, così che il peccatore si lasci convertire e possa essere perdonato. Dio offre il perdono allo scopo di convertire l’uomo.

In questa visione si potrebbe anche capire una possibile funzione della sofferenza e del dolore. Siccome il dolore, la sofferenza e la morte sono la conseguenza del peccato, hanno proprio questa funzione di mettere il peccatore davanti alle conseguenze dolorose del proprio peccato, così che sperimentando quanto male fa il male, quanto male fa fare il male, l’uomo smetta di farlo, si lasci convertire e si lasci perdonare e ridiventi santo.

Ecco che la sofferenza potrebbe essere questo cammino attraverso il quale Dio stimola il peccatore perché il peccatore prenda coscienza del suo male e si lasci perdonare. Potrebbe, perché in realtà, come ho detto prima, questo non funziona mai in modo automatico e soprattutto non va mai interpretato come: “Quello ha fatto il male, allora adesso soffre”, oppure “quello soffre perché Dio gli vuole far capire che ha fatto il male”, non funziona così, il discorso è molto più globale. Quello che succede nel libro di Giobbe è che gli amici lo prendono in modo semplicistico e allora dicono a Giobbe: “Ecco, il tuo problema si risolve facilmente! Tu stai soffrendo perché Dio ti punisce, affinché tu capisca che hai fatto il male. Convertiti e vedrai che tutto tornerà come prima!”

Questo è falso, perché Giobbe è innocente, questo è perfino perverso, perché somiglia tanto al discorso di Satana: ami Dio solo perché hai paura che Dio ti punisce o perché ti conviene, ne hai un tornaconto. Questa è la posizione degli amici, che chiaramente non funziona, perché Giobbe è innocente. Giobbe allora dice: “Questo non funziona, perché io sono innocente, quindi io non posso accettare che Dio mi stia punendo per qualcosa, ma se lui mi sta punendo perché vuole che io mi converta dal male, dal momento che questo male non c’è, questa punizione è completamente ingiusta. Allora adesso sono io, Giobbe, che metto sotto processo Dio per mostrargli che quello che sta facendo è ingiusto”.

È così che va capito il libro di Giobbe. Giobbe in questo modo però cade nella trappola degli amici, perché anche lui va in cerca del colpevole: questo è il problema. Gli amici stanno interpretando male e, di fatto, nel libro Dio non accusa mai Giobbe di aver fatto il male, quindi sono completamente fuori strada, ma in qualche modo portano fuori strada anche Giobbe perché anche lui cade nella trappola di credere che se c’è del male qualcuno deve essere colpevole. Se non sono colpevole io, allora sarà colpevole Dio.

Questo è il problema che ogni uomo ha davanti alla sofferenza: alla sofferenza noi diamo un valore accusatorio. Vediamo il dolore e diciamo: “Chi è che ha fatto il male? Chi è il colpevole?” È colpevole l’uomo oppure non è colpevole, e allora è colpevole Dio che ha permesso che questo male cadesse su un uomo che è giusto. Noi andiamo continuamente in cerca del colpevole. È colpevole l’uomo? Abbiamo risolto il problema. Non è colpevole l’uomo? Allora inevitabilmente noi facciamo sì che la sofferenza diventi un’accusa a Dio, come Giobbe, dicendo che è Dio il colpevole.

È Dio il principio del male? No, questo non si può dire e non lo dice mai neppure Giobbe. Ma allora il male avviene perché lui permette il male? Sembrerebbe di sì, ma Giobbe non lo dice. Il problema allora è che dobbiamo fare il processo a Dio anche noi, insieme a Giobbe, cioè lottare con una falsa idea di Dio per trovare la vera immagine di Dio. Giobbe si mette a lottare con Dio, ecco il processo, perché vuole che Dio cambi, perché vuole che Dio si converta, prenda coscienza che quello che sta facendo non è secondo Dio, allora bisogna che Dio si rimetta a fare Dio, come Dio.

È questa la lotta del credente con Dio, e dico del credente perché Giobbe è un gigante della fede. Questa è la lotta del credente, è la lotta di Giobbe che, davanti a un Dio che sembra diventato cattivo e ingiusto, dice: “No! Non è vero, Dio è buono e Dio è giusto! Io non mi rassegno all’idea che Dio possa essere cattivo e ingiusto e allora lotto con lui perché voglio ritrovare il Dio buono e giusto in cui io ho sempre creduto e in cui io continuo a credere e non rinuncio a credere a questo”.

Allora bisogna che sia Dio a cambiare, io non voglio cambiare. Io non voglio cambiare la mia immagine di Dio, perché so che Dio è buono, io non accetto di dire che è cattivo. I fatti sembrano dire questo però, c’è un innocente che soffre, i fatti sembrano dire che Dio è cattivo. Ebbene, io, Giobbe, io credente, dico no, non è vero, Dio è buono. Io non cambio. Dio è buono e allora adesso io lotto con Dio perché lui finalmente si manifesti per ciò che è, buono e giusto, e dunque io possa lodarlo nuovamente per ciò che è, anche davanti a questi fatti che sembrano contraddire la realtà.

Leggendo il libro di Giobbe troviamo delle frasi che sembrano delle bestemmie. Tu, Dio, sei cattivo, tu uccidi l’uomo… In realtà è il processo! Quello che Giobbe vuole è che Dio possa finalmente rimanifestarsi per ciò che è, e questo perché Giobbe crede nel Dio buono e ha a cuore che il Dio buono si manifesti come buono a tutti.

A volte i Salmi riportano preghiere in cui si dice a Dio: Svegliati, che fai dormi? Perché lasci che le nazioni dicano: dov’è il loro Dio? Questo è il problema, davanti al dolore, la domanda è: Ma Dio dov’è? Che fa? È andato in vacanza? Sta giocando a carte? Dov’è Dio? Se n’è andato? Perché il male trionfa, l’innocente viene perseguitato, la violenza regna, i bambini muoiono, gli uomini vengono perseguitati, e Dio che fa? Dov’è? Questa è la domanda.

Giobbe vuole che Dio si manifesti per ciò che è, così che nessuno possa dire: Ma Dio dov’è? Oppure, come gli amici: Stai male? È colpa tua! Soffri? È perché sei colpevole! È perché hai commesso peccato! Questi sono gli amici. Giobbe non vuole questa tesi, ma non vuole neppure che Dio non intervenga per manifestarsi per come realmente è.

Alla fine dei suoi discorsi allora Giobbe giura la sua innocenza e dice: “Basta, è andata, se devo morire muoio, non m’importa più niente, io sono innocente, giuro, metto pure la firma, firma il documento di innocenza. Succeda quel che succeda io vado incontro a Dio e Dio adesso mi dovrà rispondere”. E dopo un breve intervallo nel quale interviene un tal Elihu che però non aggiunge niente di decisivo al dibattito, Dio finalmente risponde, e risponde mettendosi a fare delle domande.

Comincia a chiedere a Giobbe: “Tu dove eri quando io costruivo la Terra? Dove eri quando io fermavo il mare perché non straripasse sulla terra? Dove eri quando io creavo le stelle? Tu sai come si fa a dar da mangiare ai leoni, o ai figli del corvo? Tu sai come si fa a far partorire i camosci? Sai come si fa a tenere la Terra stabile sulle sue colonne? Tu sai come si fa a tenere insieme le costellazioni? Beh, tu saprai dove sono la brina, la neve no? Dimmelo!”.

Cosa fa Dio? Con queste domande mette Giobbe davanti ai misteri belli del Creato per aiutare Giobbe a capire, e qui fa il processo a Giobbe, ma quello vero, non quello falso degli amici. Dio vuole aiutare Giobbe a capire che l’uomo è davanti a dei misteri che non si possono capire, e allora lo mette davanti ai misteri del Creato, lo mette davanti ai misteri delle cose del mondo.

Giobbe le conosce, conosce le stelle, la neve, la brina, i leoni e i camosci, è il suo mondo. Ma Giobbe adesso è costretto ad ammettere che è il suo mondo, ma lui non ne sa niente, non lo capisce! Ci sono misteri davanti ai quali si deve fermare. E se ci si deve fermare davanti ai misteri delle stelle, quanto più ci si deve fermare davanti al mistero della vita dell’uomo. Posso pure capire come fanno le stelle a muoversi, perché ci sono delle leggi che prima o poi riusciremo a scoprire, ma la vita dell’uomo no, perché c’è dentro la libertà.

Allora Dio mostra a Giobbe un creato bello e buono, così che Giobbe capisca che Dio, che ha fatto quelle cose è bello e buono e che lui, Giobbe, invece quelle cose non le ha fatte, è piccolo e si deve fermare davanti al mistero e deve dire: “Ebbene, l’uomo non può capire tutto, deve sapersi fermare”. Allora l’uomo non può capire la sofferenza, che però non è più accusatoria, perché non si può spiegare, né accusando l’uomo, né accusando Dio.

Quando Giobbe capisce questo e dice: “Basta, non parlo più”, Dio insiste e questa volta gli fa vedere le cose mostruose, i mostri marini, perché adesso Dio va a toccare un punto nevralgico e dice a Giobbe: “Ascoltami bene, adesso tu ti metti a fare Dio, ti rivesti di maestà e potenza, distruggi il male in un attimo, fai tutto quello che io non ero capace di fare, e io, che mi metto a fare l’uomo, ti loderò!”. Dio dice: “Scambiamoci le parti, tu mi accusavi di non saper fare Dio come Dio deve fare? Allora fallo tu, Dio. Risolvi il problema del male, se sei capace e allora io ti loderò!”.

Dio sta toccando il punto nevralgico che è il problema eterno dell’uomo. Accettare di essere uomo e non Dio, accettare che Dio sia diverso dall’uomo. Questo è il nostro problema. Il problema di Giobbe è il nostro di sempre. “Ma perché Dio ha fatto questo? Ma perché Dio ha permesso quest’altro?”. Dio ci dice: “Ah, sì? Fallo tu! Scambiamoci le parti. Se tu sai fare Dio così bene, meglio di me, scambiamoci le parti!”.

La vera potenza di Dio non è quella che noi pensiamo, quella di Superman, di uno che interviene e risolve con la bacchetta magica. La potenza di Dio è talmente potente da poter entrare nella debolezza dell’uomo, addirittura facendosi uomo per portare l’uomo alla salvezza. Quella è la potenza di Dio. Convertire i cuori.

Quella è la potenza di Dio. La vera potenza di Dio è convertire i cuori e salvare l’uomo. Finalmente Giobbe, davanti a questo, capisce. Capisce di non poter capire e accetta il mistero e allora la famosa frase: “Prima ti conoscevo per sentito dire, ora finalmente i miei occhi ti vedono”. Quando Giobbe dice questo è ancora malato, ancora senza niente, nella disgrazia. Entra nella benedizione così come è. Malato, senza capire niente.

A questo punto l’epilogo racconta che Dio gli restituisce tutto. Perché Giobbe ha potuto dire: ”Ora i miei occhi ti vedono.

E dopo aver detto questo Giobbe può persino perdonare gli amici e fare i sacrifici per loro. Giobbe è entrato nella benedizione perché ora vede Dio e perdona come perdona Dio. Allora è beato, è benedetto e per dire questo l’epilogo dice che Giobbe è ridiventato ricco, che Giobbe è guarito e felice.

Non è un lieto fine, perché i figli morti rimangono morti, perché il tempo della sofferenza a Giobbe non lo restituisce nessuno. Adesso però pur nella sofferenza Giobbe è entrato nella benedizione perché dentro la sofferenza e dentro la morte, Giobbe sa che Dio, la sofferenza e la morte, sono tutte realtà che bisogna accettare nel mistero e che accettando il mistero gli occhi si aprono, vedono cose diverse: “Ora i miei occhi ti vedono”.

Se accettiamo il mistero è possibile vedere il Dio buono anche dentro il dolore. Il libro di Giobbe non dà una risposta vera al problema del bene e del male. O meglio, dà una risposta vera, ma non di tipo logico, con spiegazioni dettagliate. La risposta del libro di Giobbe è una risposta esperienziale, la risposta del libro di Giobbe è: “Se volete capire il senso del dolore e della morte, dovete entrarci dentro continuando a credere che Dio è buono. Dovete cambiare il cuore, accettare che Dio è Dio, dovete accettare il mistero”.

E il male dunque rimane un mistero, però Dio può essere riconosciuto come Dio buono anche nel dolore, e come il Dio della vita anche nella morte. Giobbe pone la domanda in tutta la sua drammaticità, perché è un uomo che lotta, che grida, che accusa Dio, che non ha paura di chiamare le cose con il loro nome, perché è l’uomo di fede che combatte dentro la crisi della fede.

Giobbe ha posto la domanda, la risposta la possiamo trovare a Pasqua, quando con il Figlio di Dio che muore e risorge, lì finalmente finisce la morte, perché viene vinta, e lì finisce anche la colpa, il male viene vinto. Di questo innocente che muore e questa volta Innocente con la I maiuscola, perché è il Figlio di Dio, e Gesù muore perdonando, distruggendo la colpa e dicendo: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno.

Perdona loro”, il male c’è, ma “non sanno quello che fanno”. Se noi accettiamo questo, accettiamo di essere quelli che quando facevano il male non sapevamo quello che facevamo e perciò adesso si lasciano finalmente perdonare da Dio, se noi entriamo dentro questa dinamica, allora anche la nostra colpa è cancellata, la colpa è distrutta e diventiamo, anche noi, innocenti.

Non c’è più niente che ci possa accusare. Noi siamo liberi dalla colpa per quella morte e niente più allora, se noi accettiamo di essere questi che si lasciano perdonare, niente più ci può accusare perché non solo Gesù è risorto e ha distrutto la morte e ha distrutto la colpa, ma quell’unico segno che poteva ancora accusarci, il corpo morto di Gesù che poteva accusarci di essere stati assassini, quel corpo non c’è più, la tomba è vuota. Questo è il grande annuncio di Pasqua.

Per concludere, la risposta al problema della sofferenza è la vita stessa di Cristo. Egli non cancella il dolore dal mondo, ma lo assume in sé e, attraverso di esso, ripara il peccato e apre le porte del Regno dei cieli. Così anche per i suoi discepoli: «Se uno vuol venire dietro a me, rinunci a se stesso, prenda ogni giorno la sua croce e mi segua» (Luca 9:23). In questa prospettiva di comunione alla sofferenza di Cristo, si può comprendere la sorprendente affermazione di Paolo: «a voi è stato dato, rispetto a Cristo, non soltanto di credere in lui, ma anche di soffrire per lui» (Filip. 1:29). Allora la sofferenza umana si illumina di nuova luce: è grazia e dono divino e prepara per noi una quantità smisurata ed eterna di gloria (2Cor. 4:17). Si può gioire anche nella persecuzione: «Ed essi se ne andarono dalla presenza del Sinedrio, rallegrandosi di essere stati reputati degni di essere vituperati per il nome di Gesù» (Atti 5:41), ed essi insegnarono agli altri a fare altrettanto: «in quanto partecipate alle sofferenze di Cristo, rallegratevene, affinché anche alla rivelazione della sua gloria possiate rallegrarvi giubilando. Se siete vituperati per il nome di Cristo, beati voi! perché lo Spirito di gloria, lo Spirito di Dio, riposa su voi» (1Piet. 4:13,14). Paolo è contento di soffrire perché sa che ne viene del bene per la Chiesa: «Ora mi rallegro nelle mie sofferenze per voi; e quel che manca alle afflizioni di Cristo lo compio nella mia carne a pro del corpo di lui che è la Chiesa» (Col. 1:24).

Sopra la porta della cella di padre Pio si legge anche oggi la scritta: “La croce è sempre pronta e ti aspetta ovunque”. La penitenza che più piace a Dio è il dolore dei propri peccati, il portare con dolce rassegnazione la propria croce.

L’uomo, chiamato ad essere felice, se non riesce a dare un senso alle proprie sofferenze, cerca semplicemente di eliminarle in tutti i modi, ma non è nella mancanza di pene e prove che troveremo il nostro appagamento.

sabato 22 giugno 2019

DIODATI, FRANKESTEIN, IL VAMPIRO, E ROSSETTI


Vi presento una persona: Mary Wollstonecraft. Una donna inglese rivoluzionaria che va in Francia e si trova nel bel mezzo della rivoluzione francese, lei inglese e gli inglesi a quel tempo non andavano molto d’accordo con i francesi. Un americano, Gilbert Imlay, la prende come sposa, lei diventa cittadina americana e si salva. Partorisce una bambina (Fanny) e il marito da buon rivoluzionario la lascia. Lei tenta il suicidio, ma non ci riesce. A un certo punto riesce a tornare a Londra. Si butta nel Tamigi, la salvano. Sposa un vecchio rivoluzionario filosofo, William Goldwin, che insieme a lei ha una seconda bambina, che viene chiamata come la madre, Mary. Poco dopo il parto, Mary Wollstonecraft muore di setticemia. Goldwin per occuparsi della prole si risposa, e sposa una donna che ha già due figli con due uomini diversi, Charles e Claire. Quindi Goldwin si trova con questi quattro figli.    

A un certo punto Goldwin, ormai anziano, riceve la visita di un giovane rivoluzionario inglese, Lord Percy Shelley un ricco lord dell’altissima aristocrazia inglese, che studiava (per così dire) a Oxford, ma non studiava perché invece di dedicarsi ai libri lui faceva esperimenti sull’elettricità. Avendo negato l’anima, il principio di vita, si chiedeva da dove proveniva la vita e per questo studiava l’elettricità. Faceva esperimenti nell’università con le rane, con la scossa elettrica, credendo che potessero riprendere vita dopo morte con le scosse elettriche.

Arriva da Goldwin per chiedere lumi, arriva lì e trova la quindicenne Mary e si innamora, colpo di fulmine. Poi c’è tutta una leggenda che dice che abbiano consumato il primo rapporto sulla tomba della madre Mary Wollstonecraft, comunque a un certo punto Lord Byron Shelley dice a Goldwin: Io porto tua figlia sul continente per una vacanza (grand tour si chiamava a quei tempi i viaggi per l’Europa). Dopo un po’ di resistenze del padre, Shelly paga e si prende la figlia. Non solo, ma si porta anche la sorella più piccola Claire. Fanny (la primogenita) non gli piaceva e l’ha lasciata lì. Però Fanny era innamorata di Shelley. La telenovela Dinasty non era niente a loro confronto.

Cosa fa Shelley? Porta Mary e Claire in una villa vicino al lago di Ginevra, Villa Diodati (in terra calvinista), affitta questa villa e lì passano un mese impegnati in varie attività. Lì vengono raggiunti dall’amico di Shelley, Lord George Byron, che si è portato con sé il proprio medico personale, nonché segretario, nonché amante, John Polidori. Questi hanno passato un mese di tempo sostanzialmente a fare delle orge (ricordiamo che tra di loro c’erano due sorelle). A un certo punto si vede che si sono stufati, e qualcuno ha lanciato un’idea: facciamo un concorso letterario, siamo tutti letterati, scriviamo dei racconti.

Questa vicenda è stata ripresa anche in alcuni film, il più particolare è “Ghotic” di Ken Russel. Si narra che durate questo mese siano anche avvenute delle cose un po’ sovrannaturali, un po’ strane. Comunque, gli unici due racconti che riescono ad essere finiti, li scrive Mary Shelly e John Polidori. Mary scrive un racconto intitolato Frankestein, in cui c’è un giovane che cerca compulsivamente di dare la vita alla materia morta, attraverso cosa? L’elettricità. L’esperimento riesce (nel racconto) e le conseguenze sono catastrofiche, perché fronteggiare temi spirituali come la vita, la morte, la creazione, da parte dell’uomo, porta delle conseguenza catastrofiche.  

Polidori, l’altro che riesce a finire il racconto, lo intitola Il vampiro, il primo scritto sull’argomento. Come Mary aveva ritratto in Frankestein, Lord Shelley, Polidori ritrae nel vampiro George Byron, perché il vampiro di Polidori non è assetato di sangue ma di sesso. L’idea qual era? Perché Shelley e Byron fanno tutta questa roba? Loro si portano un solo libro, che è un libro sugli illuminati di un padre benedettino (Agostino Barruel), e si mettono a studiare questo libro, perché Barruel descriveva il funzionamento delle società segrete volte a rivoluzionare il mondo. L’intento dei due era: Noi dobbiamo creare una setta come gli illuminati che rivoluziona lo stato di cose presenti attraverso il sesso, attraverso la rottura di tutte le regoli morali e religiose. La prima rivoluzione sessuale. Questi hanno vissuto la prima rivoluzione sessuale.  

Lì nasce un duplice filone letterario, da una parte la letteratura horror, nasce lì in questa villa in questo mese dell’estate del 1816. Le conseguenze di questo mese sono state tragiche, perché tornati in Inghilterra hanno trovato che Fanny si era suicidata, Polidori dopo qualche mese si è suicidato anche lui, e la bambina che Shelly e Claire avevano concepito è stata abortita.

Cosa interessante è che I diari di Polidori, contenenti numerosi aneddoti tratti dai suoi viaggi con Byron, vennero pubblicati collettivamente con il titolo The Diary of John Polidori a cura di William Michael Rossetti, figlio di Gabriele Rossetti, importante massone di Vasto e zio di quel Pietrocola Rossetti che fondò la chiesa dei Fratelli su commissione della massoneria inglese.

La Villa Diodati in cui si riunirono era la villa di quel Giovanni Diodati che tradusse la Bibbia per i protestanti italiani.

Lì però comincia anche la letteratura romantica. Tutti quelli che sono andati a scuola hanno un’idea della letteratura romantica come bellissima, però tanti confondono la letteratura romantica con i romanzi d’amore medioevali. Paolo e Francesca, Romeo e Giulietta, non sono romantici, sono storie di fidanzati che legittimamente, rispettando le regole morali e religiose vogliono coronare il loro sogno di amore ma questo viene impedito. La letteratura romantica non è questa. Nella letteratura romantica, la storia è sempre quella: c’è la legge morale e religiosa – per esempio un matrimonio – e la legge della materia e dei sentimenti che si oppone alla legge religiosa, e secondo voi chi sono i buoni e i cattivi, chi vince? Le leggi della materia, i sentimenti. Tutta la letteratura romantica è sempre così, c’è una donna sposata, uno si innamora, e il marito dovrebbe farsi da parte perché lei si è innamorata di un altro, che poi è una amore di desiderio sessuale sostanzialmente. La letteratura romantica è tutta così

Il più importante critico letterario italiano Mario Praz, che si è occupato soprattutto della letteratura tra l’800 e il ‘900, nel suo saggio intitolato “Il patto col serpente” dice «gli uomini del sottosuolo avevano taciuto non per 40 anni ma forse per 40 secoli. Tutto il mondo larvale della psicopatia è talmente dilagato in letteratura che a far nomi non si terminerebbe mai, il loro nome è Legione. Dalle labbra dello scrittore di talento non meno che da quelle del pennaiolo mercenario o della sublimata canzonettista, parole, parole, parole dal sottosuolo, ciascuno marciando in piena luce col suo serpente attorcigliato attorno al corpo nudo come nella parata e danza del film Cleopatra». Questo secondo lui era la letteratura dell’800 e del ‘900, un impulso larvale che ha taciuto per 40 secoli, le origini sono antichissime. Il riferimento a Legione per chi conosce il vangelo sa che non è casuale.

giovedì 20 giugno 2019

LA GUIDA COMPLETA PER UCCIDERE I NON EBREI


Da Maariv (giornale israeliano) 9-11-2009 [pag. 2]




                   Torat ha-Melekh e il suo autore principale autore anti-goyim, Rabbi Yitzhak Shapira

Quando è lecito uccidere i non ebrei? Il libro Torat ha-Melekh ["L’Insegnamento del Re"], è stato scritto dal rabbino Yitzhak Shapira, il decano della yeshiva Od Yosef Hai nella comunità di Yitzhar vicino a Nablus, insieme ad un altro rabbino della yeshiva, Yossi Elitzur. Il libro contiene non meno di 230 pagine sulle leggi riguardanti l'uccisione di non ebrei, una sorta di guida per chiunque rifletta sulla questione se e quando è lecito prendere la vita di un non ebreo.

Sebbene il libro non sia distribuito dalle principali case editrici, ha ricevuto calde raccomandazioni da elementi di destra, incluse le raccomandazioni di importanti rabbini come Yitzhak Ginsburg, Dov Lior e Yaakov Yosef, riportate all'inizio del libro. Il libro è distribuito via Internet e attraverso la yeshiva, e il prezzo di lancio è stato di 30 NIS. Alla cerimonia commemorativa che si è svolta nel fine settimana a Gerusalemme.

In tutto il libro, gli autori si occupano, con domande teoriche, della legge religiosa ebraica riguardo l'uccisione di non ebrei. Le parole "arabi" e "palestinesi" non sono menzionate neanche indirettamente, e gli autori stanno attenti a non fare dichiarazioni esplicite a favore di un individuo che vuol sostituirsi alla legge. Il libro riporta centinaia di fonti bibliche della legge religiosa e contiene citazioni del rabbino Abraham Isaac Kook, uno dei padri del sionismo religioso, e del rabbino Shaul Yisraeli, uno dei decani della Mercaz Harav Yeshiva, la roccaforte del sionismo nazional-religioso che si trova a Gerusalemme.

Il libro si apre con la proibizione di uccidere i non ebrei e la giustifica, tra le altre cose, per prevenire l'ostilità e la profanazione del nome di Dio. Ma ben presto, gli autori passano dalla proibizione al permesso, alle varie dispensazioni per aver danneggiato i non ebrei, con il motivo principale che è loro obbligo sostenere le sette leggi di Noè, che ogni essere umano sulla terra deve seguire. Tra questi comandamenti c’è il divieto di furto, spargimento di sangue, e idolatria. [Le sette leggi di Noè proibiscono l'idolatria, l'omicidio, il furto, i rapporti sessuali illeciti, la bestemmia, mangiare la carne di un animale vivo, e richiedono alle società di istituire leggi e tribunali].

"Quando ci avviciniamo a un non ebreo che ha violato le sette leggi Noachidi e lo uccidiamo per la preoccupazione di sostenere queste sette leggi, nessun divieto è stato violato", si afferma nel libro, che sottolinea come l'omicidio sia vietato a meno che non sia fatto in obbedienza alla sentenza di un tribunale. Ma in seguito, gli autori limitano la proibizione, osservando che si applica solo a un "sistema che riguarda i non ebrei che violano i sette comandamenti Noachidi".

"Esistono due opposti tipi di anima,
un’anima non-ebraica proviene da tre sfere sataniche,
mentre l’anima ebraica scaturisce dalla santità"
(Tanya, The Book of Chabad, cap. 19, p. 77,79)
In alto: il gran rabbino Schneerson di Chabad-Lubavitch era un razzista anti-goyim.
In basso: una delegazione dei suoi rabbini Chabad-Lubavitch supervisiona la firma del presidente George W. Bush di un proclama che dichiara il compleanno di Rabbi Schneerson: "Education Day USA" (Giorno dell’istruzione negli USA).

Il libro include un'altra conclusione che spiega quando un non ebreo può essere ucciso anche se non è un nemico degli ebrei. "In ogni situazione in cui la presenza di un non ebreo mette in pericolo la vita degli ebrei, il non ebreo può essere ucciso anche se è un giusto e non è affatto colpevole per la situazione che è stata creata", affermano gli autori. "Quando un non ebreo aiuta un assassino di ebrei, può essere ucciso, e in ogni caso dove la presenza di un non ebreo causa un pericolo per gli ebrei, il non ebreo può essere ucciso".

Una delle dispense per uccidere i non ebrei, secondo la legge religiosa, si applica in caso di din rodef [la legge dell'inseguitore, secondo la quale chi persegue un altro con intenzioni omicide può essere ucciso in via extragiudiziale]. "La dispensa si applica anche quando l'inseguitore non minaccia di uccidere direttamente, ma solo indirettamente", afferma il libro. "Anche un civile che aiuta dei combattenti è considerato un inseguitore e può essere ucciso. Chiunque aiuta l'esercito dei malvagi in qualche modo rafforza gli assassini ed è considerato un inseguitore. Un civile che incoraggia la guerra dà al re e ai suoi soldati la forza per continuare. Pertanto, qualsiasi cittadino dello stato che si oppone a noi, incoraggia i soldati combattenti, o esprime soddisfazione per le loro azioni, è considerato un inseguitore e può essere ucciso. Inoltre, chiunque indebolisca il nostro stato con parole o azioni simili è considerato un inseguitore".

I rabbini Shapira ed Elitzur stabiliscono che anche i bambini possono essere puniti perché sono "impedimenti". I rabbini scrivono quanto segue: "Impedimenti - i bambini si trovano molte volte in questa situazione. Bloccano la via di salvezza con la loro presenza e lo fanno essendo forzati. Tuttavia, possono essere uccisi perché la loro presenza aiuta l'omicidio. C'è una giustificazione per uccidere i bambini se è chiaro che quando saranno cresciuti ci faranno del male, e in una tale situazione possono essere puniti deliberatamente, e non solo durante un combattimento".

Inoltre, i bambini dei capi possono essere colpiti per esercitare pressioni su di loro. Se colpire i figli di un sovrano malvagio lo può influenzare a non comportarsi in modo malvagio, essi possono essere colpiti. "È meglio uccidere gli inseguitori che uccidere gli altri", affermano gli autori.

In un capitolo intitolato "Danno causato agli innocenti", il libro spiega che la guerra è diretta principalmente contro gli inseguitori, ma quelli che appartengono alla nazione nemica sono anch’essi considerati nemici perché stanno aiutando gli assassini.

Anche la vendetta ha un posto e uno scopo in questo libro dei rabbini Shapira ed Elitzur. "Per sconfiggere il nemico, dobbiamo avere verso di loro uno spirito di rappresaglia e di misura per misura", essi affermano. "La ritorsione è assolutamente necessaria per vanificare la loro malvagità. Pertanto, talvolta facciamo azioni crudeli per creare il giusto equilibrio del terrore".

In una delle note, i due rabbini scrivono in modo da consentire alle persone di agire da sole, al di fuori di qualsiasi decisione del governo o dell'esercito. "La decisione della nazione non è necessaria per permettere di versare sangue del regno del male", scrivono i rabbini. "chiunque venga attaccato può colpirli.

"Death to gentiles" (morte ai gentili). Scritta sul muro di un monastero cattolico da coloni israeliani

A differenza dei libri di diritto religioso pubblicati dalle yeshiva, questa volta i rabbini hanno aggiunto un capitolo contenente le conclusioni del libro. Ognuno dei sei capitoli è riassunto in punti principali, che affermano, tra le altre cose: "Nella legge religiosa, abbiamo scoperto che i non ebrei sono sospettati di versare sangue ebraico, e in guerra questo sospetto diventa molto forte. Bisogna considerare di uccidere anche i bambini, che non hanno violato le sette leggi di Noè, a motivo del pericolo futuro che verrà causato da loro se potranno crescere fino a diventare malvagi come i loro genitori".

[…] Uno studente della yeshiva Od Yosef Hai di Yitzhar ha spiegato, dal suo punto di vista, che i rabbini Shapira ed Elitzur hanno avuto il coraggio di parlare liberamente su un argomento come l'uccisione dei non ebrei. "I rabbini non hanno paura dei procedimenti giudiziari perché in quel caso, Maimonide [Rabbi Moses ben Maimon, 1135-1204] e Nachmanide [Rabbi Moses ben Nachman, 1194-1270] dovrebbero essere processati anche loro, e comunque, questa è una ricerca sulla legge religiosa", ha detto lo studente. "In uno stato ebraico, nessuno va in prigione per studiare la Torah".

Altre fonti "sacre" di razzismo anti-goyim

"Se un non ebreo ha ucciso un altro non ebreo, o un non ebreo ha ucciso un ebreo, l'assassino è responsabile dell'esecuzione, se un ebreo ha ucciso un non ebreo, è esonerato dalla punizione" (Talmud babilonese, Sanhedrin 57a).

Nel suo libro Tanya, un testo sacro al giudaismo di Chabad-Lubavitch, il fondatore di Chabad, il rabbino Shneur Zalman, insegna che i Gentili sono "rifiuti e immondizia".

Nel primo capitolo del Tanya, il rabbino Zalman impartisce l'insegnamento che le anime non ebraiche "sono emanate dagli immondi kelipot che non contengono nulla di buono".

- Citazione dall'edizione autorizzata da Lubavitch del Likutei Amarim Tanya di Rabbi Schneur Zalman di Liadi, edizione bi-lingue ebraico-inglese: "L'ebreo per sua origine ed essenza è completamente buono. Il goy (non ebreo), per sua fonte ed essenza, è completamente malvagio, non è semplicemente una questione di differenza religiosa, ma piuttosto di due specie del tutto diverse ('shnei minim nifradim')".
Israeliani anticristiani hanno scritto con vernice spray "Gesù è una scimmia", sul muro del monastero trappista di Latrun, vicino a Gerusalemme nel 2012. La porta del monastero fu incendiata da vandali ebrei.












giovedì 6 giugno 2019

LA MORTE DEL PADRE



C’è un tramonto della figura del padre. In un certo senso con il padre tramonta l’uomo, in quanto il giovane uomo anche se non diventerà padre sul piano genitoriale, ha comunque inscritto nel suo dna di maschio di essere padre, perché il suo pieno sviluppo umano è comunque una qualche forma di paternità, se con paternità intendiamo la capacità di prendersi cura, di guidare, di sacrificarsi a favore di qualcun altro. Quindi la mascolinità adulta è sempre una incarnazione più o meno compiuta della paternità, come la femminilità adulta compiuta, è sempre una forma più o meno ben realizzata di maternità, anche laddove la persona non ha figli.

Ecco allora che il tramonto del padre non è solo il tramonto di una figura sociologica, di colui cioè che è marito, diventa padre, genera figli, quello che è in gioco è la possibilità del giovane uomo di diventare veramente adulto e quindi di saper esercitare una qualche forma di paternità, che sia di generazione di figli o che sia in generale la possibilità di prendersi cura e sacrificarsi a favore di qualcun altro che va aiutato nel crescere. Vedremo anche che tipo di mondo è quello senza più padri.

Il padre ha un legame analogico con Dio, perché Dio è il primo dei padri, ma ha un legame analogico con qualunque autorità, perché il concetto stesso di paternità, in tutte le tradizioni umane, rimanda al concetto di autorità. Dunque, il tramonto del padre è anche tramonto di Dio – il modello stesso di ogni paternità – ma ahimè è anche il tramonto, l’oscurarsi di ogni autorità. Dio, il padre terreno, e ogni forma di autorità, tramontano insieme, né potrebbe essere diversamente.

Tutta la rivoluzione moderna, almeno da Lutero in poi, è la storia di questo tramonto: Rinascimento – Lutero - Rivoluzione francese - Rivoluzione bolscevica – Rivoluzione morale del 1968, seguono una linea retta di dissoluzione della cultura occidentale.

Insieme al padre, insieme all’autorità, tramonta il concetto di verità, perché autorità e verità sono in rapporto molto stretto, in quanto la verità è la suprema autorità. La verità obbliga, la verità guida, la verità illumina, conforta, sostiene, orienta la vita dell’uomo.

Noi assistiamo al tramonto, come se fossero due binari paralleli, del padre e del sentire religioso, ma anche al tramonto del concetto di verità che aveva reso grande l’occidente cristiano.

Questo culmina in tempi moderni nella democrazia, che è una forma di sovranità vuota, di una sovranità senza potere reale. In un regime democratico il potere non è più dislocato da nessuna parte, nessuno ha più veramente potere, perché il principio spirituale della democrazia è la fratellanza (liberté, egalité, fraternité), dove si è tutti fratelli, ma si è fratelli orfani di padre.

La decapitazione dei re (Carlo I in Inghilterra da parte di Cromwell, e Luigi XVI in Francia) in realtà sono, come sanno bene gli specialisti antropologi, dei riti sacrificali per instaurare un mondo di fratelli che non hanno padre. E un mondo politico generato dal parricidio è un mondo democratico (in senso spirituale filosofico, più che in senso politico), dove dovrebbe esserci l’autorità, ma invece dell’autorità c’è il potere. C’è il potere senza l’autorità.

Tutti i sistemi politici antichi, erano fondati sulla distinzione tra auctoritas sacrata e potestas regalis. Il potere concreto, il potere regale, era subordinato e dipendente dall’auctoritas sacrata, di quello che noi chiameremmo i valori, e che erano molto più che valori. L’auctoritas sacrata era quella esercitata dai sacerdoti, non solo cristiani, ma anche pagani, ed era il tentativo di stare attaccati fedelmente a dei valori eterni, religiosi, divini, sacrali, in modo che la città dell’uomo (la politica) fosse costruita come riflesso di un ordine celeste immutabile – e questo in tutte le civiltà.

Se tramonta il padre tramonta l’auctoritas sacrata, e il potere diventa un potere puro, totalitario e oppressivo, privo di confini, perché il divino delle idee eterne non fa più da argine a ciò che può fare l’uomo, orfano di un padre amoroso, che sappia con fermezza e dolcezza guidarlo verso ciò che dovrebbe diventare. Questa è l’architettura che spiega l’evoluzione moderna.

Il liberalismo, il laicismo, di cui noi ci vantiamo come se fossero dei fiori all’occhiello e delle conquiste straordinarie, sono delle realtà totalitarie, accettano solo la negazione di ogni verità; in altre parole si accetta tutto tranne qualcuno che affermi come vera una verità eterna. In questo mondo la fede viene accettata solo se ristretta nella gabbia della vita interiore, ecco la religione che tramonta, che diventa personale, soggettiva, sganciata dalla società e dalla storia.

A questo punto il tramonto è un tramonto familiare. Sta uscendo lentamente ma in modo sempre più massiccio una famiglia senza padre. Dov’è il padre? L’Eurostat ha scoperto che nel 2000 il 9% dei figli nasceva fuori del matrimonio in Italia, oggi il 28%, il dato è triplicato. Ma in Europa, in otto paesi europei, più del 50% dei figli nascono al di fuori del matrimonio. In Francia il 60%, e in altri paesi come Slovenia, Svezia, Danimarca, Portogallo, un bambino su due nasce in una famiglia e in un contesto dove non c’è il padre.

Quindi si sta producendo effettivamente un nuovo ordine, che è drammatico, nel quale abbiamo il tramonto della famiglia, abbiamo una crescente percentuale di famiglie senza padre, di figli senza padre.

È una crisi morale del padre, e anche là dove c’è il padre, è sottoposto a uno svuotamento del suo ruolo e impedito moralmente a svolgere il suo ruolo con tutta la decisione che invece sarebbe necessaria.

È il crollo sociologico del modello di uomo tradizionale. Questo modello di paternità e di uomo è tramontato in una data ben precisa, nel 1968, che è stato un processo scientificamente pianificato a livello di poteri forti finanziari (ma non solo), è stato costruito in laboratorio, sperimentato e poi applicato in tutto il mondo, soprattutto occidentale.

C’era bisogno di un nuovo tipo di uomo e questo viene prodotto con il fenomeno più artificiale della storia che è il 1968 – tutto tranne un fenomeno spontaneo. Il ’68 spezza il codice della figura del ruolo del padre attraverso una campagna scientificamente programmata di propaganda mass mediatica che invade di colpo l’occidente, e il padre diventa qualcosa di retrogrado, fastidioso, oppressivo, autoritario, e così nasce una ideologia nemica del concetto stesso di paternità. Si spezza il simbolo paterno, e le generazioni che nascono dopo il ’68 sono figlie di padri feriti, di padri vittime della rivoluzione gnostica del ’68 che non riescono più a essere padri, non sanno più che cosa vuol dire essere padri, e non sanno più insegnare, non con le parole ma con la profondità dei loro gesti di padre, né mostrare ai loro figli cosa vuol dire essere padre e cosa voglia dire quindi essere uomo.

C’è una crescente presenza politica delle donne. C’è anche lo scandalo delle donne soldato, una cosa chiaramente contro natura, deplorata da Platone già nell’VIII libro della Repubblica, dove spiega che massimo segno di decadenza sono le donne che si mettono a fare arti marziali. È il grado ultimo del degrado di una società. La donna soldato è una profanazione del simbolo paterno e maschile, un chiaro tentativo di andare contro natura. La donna che è fatta per dare la vita, viene addestrata per dare la morte.

C’è la mostruosità di leggi che pretendono che il 30% dei membri dei consigli di amministrazione siano donne. Cosa offensiva per le donne, assurda, perché pretende che un’azienda sia diretta da una % obbligatoria di donne. Una cosa così insensata, una mostruosità tale che fa capire però quanto è aggredita l’identità maschile.

C’è l’oscuramento della paternità con una profonda femminilizzazione della società. Ecco il nodo del problema: la femminilizzazione della società, che ferisce la donna quanto l’uomo, perché questa femminilizzazione non è una vera esaltazione della donna in quanto madre, ma è esattamente il contrario.

È nato un periodo storico, in cui la donna è tanto più vera quanto meno è madre, quanto più è lontana dal modello della madre, e quindi la donna che femminilizza la società è una donna che fa da riscontro a un uomo che non è più padre. A un uomo che non è più padre, a una sorta di eterno adolescente, si contrappone una donna che conquista sempre più spazi e femminilizza la società suo malgrado, ma in quanto donna non in quanto madre!
Ecco dunque il tramonto della madre che accompagna il tramonto della donna.

Ebbene, siamo davanti all’attacco del principio tradizionale caratteristico di tutte le civiltà. Ci sono cose vere perché sono sempre esistite. È un principio sempre rispettato da ogni civiltà umana. Se sempre, tutte le grandi civiltà sono state patriarcali, questo vuol dire che c’è un senso in questa cosa. È solo oggi che noi siamo schiavi di ideologie, la modernità almeno dal 1789 in poi è schiava dell’ideologia. L’ideologia cos’è? È che io credo vero qualcosa perché ce l’ho in testa io, e siccome la realtà è brutta e cattiva devo imporgli la mia ideologia. È la realtà che è sbagliata, la mia idea è giusta. Questa si chiama modernità.

Allora, siccome noi siamo molto ideologici ci dimentichiamo che l’ideologia è qualcosa di molto recente e che l’uomo ha sempre ragionato in altro modo, e spiego qual è quest’altro modo, è semplicissimo: ciò che è sempre stato fatto è sicuramente saggio, vero, buono. Si chiama mos maiorum (usanza degli antenati). Tutte le civiltà, fino al 1700, si pensano come custodi del mos maiorum, tutte pensano ai tempi antichi come superiori in nobiltà e valore dei tempi presenti. Tutte, e dico tutte, pensano al secolo presente come secolo di invecchiamento e di degrado rispetto all’età dell’oro che si è purtroppo perduta.

Ma nel 1700 sorge la civiltà ideologica, con l’illuminismo, la prima civiltà progressista della storia che inizia a pensare al presente come l’alba di un mondo migliore che sarà tanto più migliore quanto più saprà profanare e distruggere tutto ciò che è sempre stato prima. Si chiama rivoluzione.

Noi siamo in questa terribile rivoluzione. Eppure, non esiste civiltà antica, che fosse cinese, indiana, greca, babilonese, persiana, romana, non conosciamo una civiltà che non sapesse che sarebbe finito tutto se veniva tradito il mos maiorum, il grande codice sacrale dei valori eterni immutabili, pensati come rivelati da Dio.

Allora, come l’uomo ha sempre visto una società ordinata, una famiglia ordinata? È semplicissimo. Il concetto cardinale era il concetto di patria potestà. Questo non è un concetto solo cristiano, anche se il cristianesimo lo tempera con la carità, rendendolo più umanizzante e luminoso, perché aveva alcuni tratti aspri.

Ma questo non è un principio che io possa prendere e buttare via pensando che tutto funzioni bene come prima. No! No perché, semplicemente, è sempre stato così, da quando conosciamo le civiltà sono tutte civiltà patriarcali, tutte (con rarissime eccezioni di qualche gruppo tribale). Quindi, se sempre l’uomo ha costruito civiltà patriarcali, fondate sulla patria potestà, questo deve avere un senso. Ed ha un senso enorme, un senso smarrito il quale, se non si frantuma tutto l’edificio sociale poco ci manca.

Lo dice anche la psichiatria, lo dice la psicologia, lo dice la statistica, qualunque scienza prendiamo, conferma questo: se ferisco il padre, con esso ferisco tutto, si sfarina, si sbriciola l’edificio sociale, soprattutto si sbriciola il sentire religioso, si sbriciola la fede.

Ma la patria potestà è biblica, è rivelata da Dio. Dio nella Bibbia dà una rivelazione molto limpida della patria potestà. Quindi la patria potestà è: 1) la tradizione di tutte le civiltà; 2) è rivelazione di Dio:

1Corinzi 11:3 Ma io voglio che sappiate che il capo d'ogni uomo è Cristo, che il capo della donna è l'uomo, e che il capo di Cristo è Dio.

L’uomo ha autorità sulla moglie, in quanto lui per primo è esempio di sottomissione a Cristo, e in quanto ha come telos, come fine della sua azione, il condurre tutti a Cristo. Quindi è sì l’autorità, ma la legittimità della sua autorità viene da Dio stesso, e Dio vuole che sia legata al fatto che ha il compito di guidare tutti verso la pienezza della fede.

L’uomo ha l’autorità sulla moglie, ma come dicono i padri della chiesa, lasci alla moglie il suo regno intoccabile, tutto ciò che è di competenza della donna. Autorità non significa essere ficcanaso, impiccione, e discutere se è meglio fare il risotto alla milanese con il midollo o senza. Quindi c’è già un primo confine che oggi gli uomini femminilizzati non sanno più rispettare, e allora l’amore diventa litigarello, perché l’uomo non è più uomo. L’uomo deve essere un patriarca, che non si cura delle piccole cose. Una macchina da guerra è costruita per le grandi cose. C’è una causa in tribunale va il padre, c’è un grosso problema va il padre, è notte bussa qualcuno alla porta va il padre, c’è la guerra ci va il padre a morire.

Autorità sulla moglie. La famiglia è una società, e in quanto società esige una autorità. L’autorità non è autorità se non è unica, piena, quindi non può esserci un’autorità divisa tra marito e moglie, perché se è divisa non è più autorità, perché in caso di conflitto chi decide? E l’autorità è l’unica garanzia della pace e dell’ordine, perché il fine dell’autorità è la pace e l’ordine, altrimenti non c’è bene comune.

Dice san Paolo:

Efesini 5:22 Mogli, siate soggette ai vostri mariti, come al Signore;
Efesini 5:23 poiché il marito è capo della moglie, come anche Cristo è capo della Chiesa, egli, che è il Salvatore del corpo.
Efesini 5:24 Ma come la Chiesa è soggetta a Cristo, così debbono anche le mogli esser soggette ai loro mariti in ogni cosa.
Efesini 5:25 Mariti, amate le vostre mogli, come anche Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei,

Qui c’è tutto. Soggette ai loro mariti in ogni cosa, ma poi dice: mariti, non è la vostra serva è la vostra compagna, siete l’autorità ma dovete amarla come Cristo ha amato la chiesa e Cristo è morto per la chiesa, e Cristo è pieno di attenzione per la Chiesa. Autorità non vuol dire potere totalitario, potere vuoto e quindi spietato. Autorità non è potere, è più del potere, viene dal latino augios, forza che fa crescere. Quindi l’autorità del marito non è un potere tirannico, è una forza che fa crescere e dunque il marito ha il dovere enorme di contribuire a tutto ciò che può far crescere moralmente e spiritualmente la moglie e favorire la sua santificazione. A questo è innanzitutto volta la sua autorità. Se le cose sono messe così nel suo giusto ordine, tutte le cose vanno al loro posto, perché si parla di autorità non di potere.

Oggi l’uomo è femminilizzato, si occupa di quisquiglie, non ha grandi pensieri.

C’è poi un modello mariano nella tradizione cristiana. Maria, pur essendo superiore in santità e grazia a Giuseppe, si sottomise a lui con umiltà e fiducia. Maria ha avuto dei doni spirituali che nessun altro ha avuto, è la creatura più elevata dopo Gesù, la piena di grazia e di Spirito, immacolata. Eppure non è pastora, non dice messa, non scrive libri, non va in TV, non va in Parlamento, e non è membro di nessun consiglio di amministrazione, ma è una casalinga. La Maria vergine santissima e immacolata, è una casalinga, che vive sconosciuta in un paesello di nome Nazaret, eppure è la creatura più alta che Dio ha fatto. Voi capite in che tempi di tenebra ci troviamo quando si osa parlare di donna sacerdote, che tempi, tempi dell’anticristo, guai a coloro che non sanno distinguere i segni dei tempi.

Luca 12:56 Ipocriti, ben sapete discernere l'aspetto della terra e del cielo; e come mai non sapete discernere questo tempo?

Sant’Agostino dice: «verso la donna che avete scelto come compagna della vostra vita, di quale delicatezza, mariti, di quale rispetto, di quale affetto dovrete in ogni circostanza gioiosa o triste dare prova della vostra autorità, che i vostri ordini, mariti, abbiano la dolcezza del consiglio».  

Oggi il padre è spesso assente. Assente in tutti i sensi, assenza fisica, assenza giuridica, assenza anagrafica, assenza assoluta (vedi fecondazione artificiale), ecc., e questa assenza è la fonte di molti dei mali che ci affliggono. Il padre a livello simbolico è anche il nomos, la legge, che si oppone al mito del ’68, mito anticristico, gnostico, dissolutorio, vietato vietare (che poi è un divieto, il divieto più violento, è il divieto di satana, fai ciò che vuoi), che toglie i confini alla libertà. Ma la libertà senza confini diventerà un fuoco divoratore, ed è quello che sta succedendo. Il padre è sì il nomos, ma è il nomos che libera, perché solo dove c’è un confine posso essere libero altrimenti mi distruggo. Senza legge non c’è comunità. Dove il padre c’è, c’è la famiglia, dove c’è la famiglia nessun potere può pensare di vincere.

Se ne accorsero i bolscevichi che dopo aver distrutto tutto a forza di campi di concentramento, di camere di tortura, di genocidi, si accorsero di una cosa: che la famiglia non aveva ceduto, dopo 70 anni di persecuzione comunista. E il comunismo fece tutto ciò che era possibile contro la famiglia, tutto. Perché il potere totalitario sa che finché la famiglia sussiste armoniosa, forte, unita, il potere lì trova un ostacolo invalicabile alla creazione dell’uomo nuovo artificiale, ideologicamente annichilito.

Quando l’uomo non è padre nel senso che ho detto, vive nell’infanzia, nell’adolescenza da prolungare all’infinito, senza mai diventare uomini, senza mai essere pronti a morire, senza mai saper accettare il sacrificio, fatica, dolore, responsabilità, solitudine, morte. L’uomo adulto è sempre pronto a morire, in senso simbolico non necessariamente fisico, il sacrificarsi per grandi opere da costruire. Ma l’adolescente non può costruire, non può costruire quell’uomo il cui fine ultimo, esclusivo, è il piacere.

Se scompare il padre, l’uomo non riesce più a uscire dall’infanzia, rimane segretamente un bambino, ferito, fragile, incapace di accettare le grandi prove, il grande dolore che la vita prima o poi riserva a tutti. Il ’68 ha imprigionato nell’adolescenza l’intero mondo occidentale. Perché facendo passare questo principio matriarcale, non è più possibile il sacrificio, e nulla di grande si può costruire senza sacrificio. E solo il padre può liberare da questo. 

I dati statistici dicono che:

-          Se il padre perde la fede e la pratica religiosa, mantiene la fede solo un figlio su 50, prescindendo da cosa fa la madre. La madre può anche continuare ad andare in chiesa. Che la madre abbia la fede o non ce l’abbia, non incide sul piano statistico. Un fatto misterioso e straordinario. Il ruolo del padre è decisivo nel trasmettere la fede.
-          Se il padre continua una intensa e fervente pratica religiosa, 2/3 e in certi casi ¾ di figli mantengono la pratica religiosa, prescindendo da cosa fa la madre.

Vedete, noi possiamo fare tutto quello che vogliamo, ma poi c’è l’ordine delle cose voluto da Dio. È interessantissimo. Perché? Perché se la fede è legata in questa maniera all’uomo, al padre, il dramma di oggi è la femminilizzazione della chiesa. È un dramma terribile. Oramai in sacrestia, in parrocchia, dietro l’altare, ci sono le chierichette, danno la comunione le donne. Sia chiaro che non sto colpevolizzando chi lo fa, ma purtroppo l’uomo maschio è una macchina un po’ delicata, e a una certa età non vuol fare le cose da donna, vuol fare le cose da uomo, e se mi scatta l’associazione che la chiesa è una roba da donne, io a 17 anni devo scappare, perché io ho bisogno di sentirmi uomo, io ho bisogno di diventare un uomo, io deve fare cose da uomini, e oggi la chiesa si sta femminilizzando, altro che fare le donne sacerdote, siamo fritti, già oggi è femminilizzata in modo impressionante.

Anche il diffondersi dell’omosessualità nel clero è legato a questa cosa, perché spesso l’omosessuale cerca ambienti in qualche modo femminili, che lo proteggono di più, e chiaramente non va a mettersi in un contesto molto maschile.
Pochi lo sanno, ma ci sono moniti del Parlamento europeo che da 15 anni sta chiedendo al Vaticano di introdurre vescovi e donne sacerdoti, con moniti ufficiali. Questo però i giornali non lo dicono. Il mondo, i nemici di Cristo, vogliono la donna sacerdote. Non vi dice niente? I giacobini avevano obbligato per legge i sacerdoti a sposarsi. I nemici della chiesa vogliono il prete sposato e la donna sacerdote. E la chiesa deve essere molto forte per combattere contro i suoi nemici, perché la chiesa ha molti nemici, non può non averne.

Esiste una sola vera guerra, a favore o contro la chiesa di Cristo, non ce n’è un’altra.

Scuola. Il tramonto della figura paterna nella scuola. Avete mai riflettuto sul fatto che fino alla metà degli anni ’60, le scuole erano divise tra maschi e femmine? Da quando esiste la scuola pubblica ottocentesca, era ritenuto sbagliato che nell’adolescenza, maschi e femmine fossero insieme. Oggi negli USA si sono accorti che quando la classe è monosessuale, o sola maschile o solo femminile, i risultati scolastici aumentano vertiginosamente. Quando le classi sono miste, a parità di campione, i risultati crollano. E negli anni ’60, anni anticristici, dove c’è la rivoluzione gnostica del ’68, guarda caso c’è una legge che unisce le classi.

Ma prima non erano divisi solo gli studenti, era diviso anche il corpo docente. Anche alle elementari c’erano i maestri, poi sono scomparsi. Poi, si femminilizza anche la didattica. La didattica diventa una tipica mansione femminile. Non solo alle elementari, dove ciò potrebbe essere giustificato da vari motivi, ma anche alle Medie, quando c’è un’età dove c’è bisogno di un uomo con tutto il vigore della sua presenza anche fisica, un uomo che guidi i ragazzi, che trasformi un gruppo di maschi giovani esuberanti, in una famiglia. Chiaramente dei maschi si lasciano trasformare in una banda di fratelli solo da un uomo che è già diventato uomo, non da una donna, troppo diversa è la natura.

Invece, il giovane uomo oramai, nasce da una famiglia su due che è senza padre; se c’è il padre spesso è un padre che è stato destrutturato dal ’68 e che ha perso il codice paterno, non sa più che cos’è. Va a scuola e ha docenti che sono per lo più donne. Va a finire che ha visto la mamma, ha visto le nonne, ha visto la zia, ha visto la sorella, a scuola per una quindicina di anni vede donne, e questo perché sarebbe un male? Perché gli viene trasmessa un cultura mediata dalla femminilità, dal taglio femminile, che è diverso da quello maschile. Capiamo che il modo in cui parla un uomo è diverso da quello di una donna e deve essere così. Sia chiaro, questa non è una critica alla donna, ma al sistema.

La legge 151/1975 ha abolito per legge la patria potestà.
Notiamo: 1970/divorzio, subito dopo abbiamo la depenalizzazione della pornografia e la depenalizzazione della contraccezione, poi l’abrogazione della patria potestà per la prima volta nella storia umana, totale parificazione tra uomo e donna, abolizione del capofamiglia, e dopo questo siamo pronti, tre anni dopo, alla legge sull’aborto. L’abolizione del capofamiglia cosa comporta all’uomo? Se io non sono più capofamiglia perché devo prendermi le responsabilità? Perché devo curarmi di te? Perche devo proteggerti e devo esserti fedele? Un capo sente i suoi doveri di capo verso coloro che gli sono affidati, ma un pari lo sente molto meno.

Da un lato l’uomo sprofonda nell’infanzia alla ricerca continua del piacere, e la donna diventa padrona di se stessa, tanto che l’aborto è anche un assalto al diritto del padre di avere il figlio che ha generato, un diritto che non viene ascoltato, per cui la donna se vuole abortire abortisce anche se l’uomo non vorrebbe.

E perché l’aborto arriva alla fine di questa parabola? Divorzio, pornografia, contraccezione, distruzione per legge della figura paterna, aborto. Perché alla fine di questo processo di erotizzazione di massa, messo a punto dai servizi segreti occidentali, la vita non è più lo scopo della famiglia e del matrimonio, ma non solo questo: la donna staccata e separata dall’uomo diventa essa stessa padrona della vita. Il figlio nasce se io voglio e non perché sia naturale che nasca. E questo succede per la prima volta nella storia. Non sto facendo né morale né teologia, questa è una catastrofe antropologica. Sapete perché? È semplicissimo. Perché un mondo umano dove non c’è più spazio per la vita nascente, è un mondo che finisce, muore. Fine di una civiltà.

La statistica dice che storicamente quando la crescita scende sotto la media di 1,9 figli per coppia, non ci si risolleva più. Noi siamo a 1,3.

Statistiche.
Negli USA il 50% dei matrimoni finiscono con il divorzio.
L’80% dei figli vivono con la madre. Telemaco nell’Odissea diceva: «quando vorrei rivedere mio padre (Ulisse) ma non c’è più».

In Italia, dal 1980 al 2000 i divorzi passano da 11800 all’anno a 37600. Nel 90% dei casi, dopo il divorzio i padri sono espulsi dalla casa di loro proprietà, fino alla maggiore età dei figli. Dal 1970 in Italia, aumenta del 72% il numero dei suicidi tra gli uomini.
Solo il 7% dei casi i figli sono affidati ai padri. In Inghilterra il 50% dei padri perde ogni contatto con i figli entro 2-3 anni dal divorzio. C’è un garantismo a favore della madre che voi non potete immaginare.

Femminilizzazione della magistratura. Crescono in maniera incredibile i magistrati donna. A chi pensate che diano ragione tra un uomo e una donna? È sempre la donna a fare la parte della vittima. Pensate al tema del femminicidio. A parte che è una assurdità linguistica dire femminicidio, la donna è un essere umano  e l’omicidio è una parola che basta e avanza per definire l’uccisione di un essere umano. Se enfatizzo troppo la femmina (che oltretutto è degradante dire femmina) cosa vuol dire l’uccisione di una femmina? Niente. Degrado la donna. E poi come chiamo l’uccisione di un maschio? Maschicidio? E poi, è vero che ci sono i femminicidi, ma sono molto più ridotti dei maschicidi.

Negli USA:
Il 90% dei barboni sono cresciuti in famiglie dove non c’era il padre
Il 90% dei figli fuggiti di casa non ha mai visto suo padre
Il 70% dei delinquenti ricoverati in riformatorio è cresciuto in famiglie senza padre
L’80% dei giovani carcerati è cresciuto in famiglie senza padre
Il 70% dei suicidi giovanili è di persone che non hanno mai visto loro padre
Se voi ascoltate bene queste statistiche, da sole bastano e avanzano per far capire che dove non c’è padre c’è un aumento impressionante di patologie sociali molto gravi e molto difficili da curare.

Ingegneria sociale – circa i servizi segreti
Si studia nei carceri il comportamento delle persone sottoposte a pornografia e droga. Fanno l’esperimento su un campione di carcerati e studiano gli effetti. Uno di quelli che subirono questo esperimento fu il famoso Charles Manson, che uccise Sharon Tate, la moglie di Roman Polanski ed era stato sottoposto a MK-Ultra. Quindi i servizi segreti inglesi e americani fecero questo studio, e poi partendo dalla California, che è l’epicentro della rivoluzione gnostica (che ha prodotto anche il ’68), perché lì aveva operato un grande esoterista, Aldous Huxley, che già negli anni ’30 aveva scritto libri sull’LSD (Le porte della percezione), sulla mescalina, sul peyote, e su varie sostanze allucinogene, e guarda caso, trent’anni dopo dalla California, dove c’era Huxley, parte il ’68. Ma parte perché viene costruito dai mass media. E l’effetto di unione di droga e pornografia è stato studiato da psichiatri a fondo prima di metterlo in pratica. Effetti: la regressione infantile, la femminilizzazione dell’uomo.

Questo semplificando molto. Poi c’è anche il progetto Monarch. Se io traumatizzo una persona, per esempio con delle immagini, produco una mente che gli psichiatri chiamano mente alveare, dove la persona ha nella mente tante celle dove i traumi subiti vengono isolati, allo scopo di proteggere la persona nella sua vita normale. Però queste celle dell’alveare si attivano in modo psicotico, in modo che la persona comincia ad avere delle dissociazioni, scissioni prodotte artificialmente, per cui certe sfere, per esempio la sessualità, comincia ad essere sganciata dal proprio ancoraggio emotivo spirituale, diventa una sfera folle, delirante, impazzita, sepolta in questa mente alveare.

Questa cosa è stata fatta a livello di massa. Questa cosa accade ai bambini abusati. I bambini abusati sviluppano la mente alveare, per sopravvivere dal trauma. Ma se io lo faccio a livello di massa – causando traumi di vario genere – produco una mente alveare di massa, e la mente alveare produce una persona particolarmente passiva, particolarmente conformista, particolarmente fragile, piena di ansie, bisognosa di poteri autoritari. Essenzialmente si è ottenuta la società che si voleva ottenere, e uno di questi obiettivi è la distruzione della famiglia, perché i poteri forti sanno che la famiglia impedisce la società dei consumi, mentre l’uomo solo, pieno di ansia, con la mente alveare, schiavo del piacere, ridotto alla brutalità di una vita in un certo senso degradata, non più spirituale, senza più orizzonti religiosi, è il perfetto consumatore.

Quindi l’ideale è una famiglia divisa, spezzata, persone ansiose, sole, smarrite, senza confini, senza la forza di quell’abbraccio che solo il padre può dare (padri abbracciate i vostri figli o qualche altro uomo lo farà al vostro posto).

Ecco che hanno prodotto un uomo solo. Atomizzato, disgregando sempre più la famiglia, per avere una serie di atomi vulnerabili, fragili, bisognosi di acquisti compulsivi di beni per sentirsi vivi, perché se io sono veramente amato non ho bisogno di molti beni, ma se io sono solo, se io non ho famiglia, se non ho conosciuto mio padre, se non sono mai stato veramente amato, io ho bisogno di molti beni.

Ma la persona, senza Dio, senza il Padre, è la persona più pericolosa che ci sia, perché la persona senza confini, la persona senza Dio, la persona senza i comandamenti, è la cosa peggiore.

La statistica dice che nel mondo gli atei sono diventati più di un miliardo, quindi gli atei sono quasi quanto i cristiani.

In Giappone non c’è mai stato il concetto di persona, se tu sei un operaio della Toyota, non sei un operaio sindacalizzato, ma sei la Toyota, una parte della Toyota. Addirittura la cultura indiano-cinese predica la insussistenza del soggetto. Il soggetto è un’illusione nel buddismo, non sei tu che sei vero, è vero il tutto, e tu quindi sei tanto più vero quanto più ti perdi nel tutto. Se sono operaio della Toyota il mio tutto è la Toyota. C’è un rapporto di fedeltà alla ditta che noi non sappiamo nemmeno cos’è. Quindi, non essendoci la persona, per paradosso, il crollo terrificante del mondo arcaico tradizionale fa meno danni, perché un giapponese anche senza padre ha meno problemi di un italiano senza padre, perché non si sente un soggetto, il suo ego è piccolo. Sono difesi, per paradosso, dal fatto che non c’è il concetto di persona.
Anche nell’Islam non c’è la persona, c’è la Umma (comunità). Infatti per loro morire è un valore.

Il Concilio Vaticano II viene dopo 20 anni di occupazione militare dell’Italia da parte degli USA.

Diritti uomo – donna.
Dove sta scritto che avere una gerarchia, per esempio, Generale, capitano, tenente, soldato, oppure: dirigente, funzionario, quadro, operaio, significhi togliere dei diritti?
L’autorità è avere doveri, non avere diritti. Quindi la gerarchia non è che toglie i diritti a qualcuno. Sul fatto che il padre sia l'autorità non ci deve essere dubbio, e l’autorità è responsabilità, una responsabilità enorme, e se sbaglio io che sono il padre, poi sono colpevole verso gli altri. Io rispondo a Dio molto più dei miei figli e molto più di mia moglie.

Un padre è un po’ come un prete, dovrebbe avere un obbligo sacerdotale, perché se non viene da lui da dove verrà l’invito alla santità, se non lui chi farà squillare la tromba? È il mediatore tra Dio e la famiglia.

Per un samurai giapponese, più la battaglia è forte più è bello combattere e, tradotto, più la crisi della chiesa si aggrava, la risposta non è parlare della crisi, perché anche se accade l’apostasia, cosa faccio, mi scandalizzo? No, perché è tutto profetato. Semplicemente devo combattere santificandomi di più. Prego di più e meglio, digiuniamo un po’. La risposta deve essere nostra.

Chi ha il dono di vedere la crisi, perché Dio lo ha amato da fargliela vedere, deve rispondere amando ancora di più Dio. La risposta è l’amore, la risposta è la santità, la risposta è il sacrificio, la risposta è più fede. C’è poca fede nel mondo, c’è poca fede nella chiesa, cerchiamo di averla tanta noi almeno, accettando quella malattia, quella morte di un caro, quella tragedia, quella perdita di lavoro, con amore. In paradiso non si va in carrozza.