Giobbe è un
libro molto lungo, 42 capitoli, e sono molto complessi, molto difficili proprio nella logica del discorso. Ma
soprattutto perché questi capitoli sono molto problematici proprio per il tema
che affronta, perché è un tema difficile, forse anche senza soluzione, un tema
che mette in crisi, perché il tema del libro di Giobbe è la sofferenza
dell’innocente.
È una sofferenza
soprattutto senza spiegazione ultima,
perché anche quando ci fosse qualche spiegazione - ed è quello che il libro di
Giobbe cerca di trovare - anche quando sembra di trovare una qualche
spiegazione, però c’è sempre una sproporzione assoluta.
Il libro di Giobbe non è solo un libro che si interroga sul
senso del dolore in generale e del dolore dell’innocente in particolare,
ma affronta
la domanda terribile su cosa fa Dio davanti al dolore dell’innocente.
Ci troviamo davanti a delle violenze che sono inaccettabili, ci troviamo
davanti alla morte e la domanda è: “Ma Dio dov’è?”. Il libro di Giobbe
è un libro che parla di Dio che si rivela in riferimento a ciò che nell’uomo
mette in crisi il suo rapporto con Lui: il problema del dolore.
Il libro è costruito in modo strano, perché i primi due
capitoli sono scritti in prosa, poi dal terzo capitolo fino ai primi versetti
del cap. 42 tutto è scritto in poesia e poi alla fine del capitolo 42 tutto
torna a essere scritto in prosa. Queste due parti in prosa - inizio e fine, prologo
ed epilogo - si potrebbero leggere da sole senza la parte in mezzo:
Giobbe è un
uomo buono e benedetto, vive in una situazione di benedizione, però in questa
situazione viene colpito da prove, disgrazie, che arrivano fino a toccargli la salute
e la morte dei figli. Giobbe rimane fedele, continua a perseverare nella sua giustizia e nella sua
bontà e allora - ecco la parte finale del libro, ecco l’epilogo - Dio gli
restituisce tutto ciò che ha perso, lo premia per la sua fedeltà e quindi
“tutti vissero felici e contenti”. Detta così è una favoletta, un racconto edificante,
che deve servire a dire: “Anche nel dolore continuate a rimanere fedeli a Dio e
vedrete che poi il Signore si farà vedere e in qualche modo vi ricompenserà”.
Questo sembra essere il racconto del libro di Giobbe. Solo che, in mezzo, dal
capitolo 3 fino ai primi versetti del capitolo 42 - cioè il
vero libro di Giobbe, quello che è scritto in poesia - qui Giobbe è completamente
diverso: non è il Giobbe paziente che davanti alle disgrazie e alla sofferenza,
accetta tutto dalle mani di Dio, continuando a benedire Dio, ma è il Giobbe che
invece protesta, che lotta con Dio, che dice “Non va bene”.
Vuole costringere Dio a dare una risposta a quella terribile domanda: “Ma
perché tutto questo? E tu, Dio, cosa fai?”
Posso brevemente
percorrere il contenuto più importante di questo libro per cercare però di
averne delle chiavi di interpretazione,
per cercare di capire che messaggio vuole dare.
Nel prologo Giobbe viene presentato come uomo perfetto. Non
ci viene dato il contesto storico di Giobbe, ma solo quello geografico: si dice
che abitava nel territorio di Uz, che non sappiamo nemmeno dove sia.
Probabilmente si riferisce al territorio di Edom - e il particolare può anche
essere interessante perché Edom era il territorio di Esaù, il fratello di
Giacobbe, e dunque fuori di Israele. È come se questo Giobbe situato fuori di Israele,
questo Giobbe visto ironicamente come discendente di Esaù, avesse molto da insegnare
al discendente di Giacobbe.
Che Giobbe sia
messo fuori dai confini di Israele, anche se poi parla sempre come un
israelita, serve probabilmente a dare alla figura di Giobbe una dimensione
universalistica, valida per tutta
l’umanità.
Comunque sia, questa mancanza di contesto storico e questa
apertura universalistica, hanno portato i rabbini d’Israele a leggere il libro
di Giobbe non in senso storico, ma come se fosse una parabola, dove Giobbe rappresenta
ogni uomo. E allora ogni uomo che legge il libro di Giobbe è chiamato a identificarsi in
Giobbe, sapendo che il problema di Giobbe è il problema di ogni uomo. Non
leghiamo Giobbe a epoche particolari, e a luoghi particolari:
il suo problema è il problema di ogni uomo, in ogni luogo e in ogni tempo.
Cosa racconta il prologo? Questo uomo perfetto - perfetto
non come Dio, ma perfetto come uomo, cioè giusto, timorato di Dio, che stava
lontano dal male - godeva di grande benedizione da parte di Dio, proprio per la
sua bontà; dunque aveva molti figli e figlie, la fecondità indica la pienezza
di vita, godeva di molti beni, di molto bestiame. Giobbe vive un rapporto
bello, facile con la vita, un rapporto benedetto dalle ricchezze e,
soprattutto, dall’armonia e dalla comunione sia familiare, sia
con tutti quelli che Giobbe ha intorno a sé, con tutti i suoi concittadini.
Questa situazione
di grande armonia era condivisa anche dai figli che la vivevano tra di loro – è
scritto, infatti, che ogni fratello faceva un banchetto invitando anche tutti
gli altri, anche le sorelle,
sottolineando così una ricchezza che non si chiude nell’egoismo, ma si offre in
banchetti vicendevoli. Offrire banchetti ha un valore simbolico, vuol dire
aprirsi agli altri, non semplicemente divertirsi, significa condividere la
vita, perché il cibo rappresenta l’elemento vitale più importante per l’uomo e
mangiare vuol dire assumere cibo e farlo diventare nostra vita.
È il cibo che nutre la vita ed è il cibo che, assimilato,
ci permette di vivere. Condividere il cibo vuol dire condividere ciò che ti fa
vivere: dal
punto di vista simbolico, quando questi preparavano un banchetto e invitavano
tutti gli altri, c’era una vera condivisione di vita, che i
fratelli vivevano tra di loro in armonia e in armonia con il padre, Giobbe, che
alla fine di ogni ciclo di banchetti radunava i suoi figli e offriva sacrifici
al Signore, perché se qualcuno dei figli avesse sbandato un po’ sarebbe stato
Giobbe a garantirli dinanzi a Dio, per proteggere il rapporto dei suoi figli
con Dio.
Dentro questa
armonia si inserisce una nota stonata perché Dio sta ricevendo i suoi ministri
e tra loro c’è anche il satàn -
Satana, che va a cercare il “pelo nell’uovo” - che dice: “È vero che
Giobbe è un uomo giusto, non lo si può negare: ma come si può essere certi che
sia giusto perché ama la giustizia, e che tema Dio perché ama Dio? Non potrebbe
essere che è giusto e teme Dio solo perché ha una vita benedetta ed è felice?”
È facile amare Dio quando si sta bene.
In poche parole, è una domanda che faremmo bene a porci anche
noi: la nostra fede, il nostro rapporto con Dio sono questione di benessere, di
buona salute, di felicità o dipende dal fatto che Dio è tutto per noi,
che è la persona più importante con la quale possiamo metterci in relazione
nella nostra vita e, di conseguenza, cerchiamo Dio perché capiamo che lui è il
bene assoluto e non perché ci dà dei beni materiali?
La crisi che
satana vuole provocare è: la religiosità di Giobbe è interessata o
disinteressata? Questo è il problema, uno dei problemi tipici dell’uomo: Noi
cerchiamo di vivere in grazia di Dio solo perché abbiamo paura di ciò che
potrebbe succedere, oppure perché lo amiamo? Crediamo in Lui perché comunque ci conviene? Questa è
la domanda che mette in gioco il concetto stesso di Dio, ed è la domanda che
pone satana: “Prova a togliere a Giobbe tutto quello che ha e vediamo se
continuerà a benedirti”. Dio dice: “Io non ho nessun problema, mi fido di
Giobbe, fai quello che vuoi, levagli quello che ha”. Giobbe perde tutto,
compresi i figli, ma continua a benedire: «Nudo uscii dal grembo di mia madre, e nudo
vi ritornerò. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome
del Signore!» (1:21).
Satana non si arrende,
dice: “Ti è andata bene, perché gli hai tolto i figli e le cose, ma non l’hai
toccato veramente nella vita, prova a toccarlo nella carne e vedi se continua a
benedirti!”. Giobbe viene toccato nella carne, una malattia che lo abbrutisce
fisicamente. A questo punto arrivano
tre amici che sono venuti a sapere della grave situazione di Giobbe, fanno una
specie di lutto per sette giorni e, dice il testo, stanno in silenzio e non
parlano perché vedevano che il suo dolore
era molto grande (2:13).
Questo è un
insegnamento importante: davanti a un dolore molto grande, l’unico
atteggiamento di sapienza è tacere, non cercare parole consolatorie che non vengono
anch’esse da un’esperienza di dolore.
Davanti a un uomo che soffre, le uniche parole consentite sono le parole che
può dire qualcuno che comprende pienamente quel dolore e lo condivide, cioè che
parla da dentro a quel dolore. Se non abbiamo il coraggio di entrare dentro
quel dolore, se non abbiamo il coraggio di entrare dentro la disperazione di
chi soffre, allora l’unica strada di sapienza è tacere. E gli amici tacciono.
Poi inizia la
parte in poesia dove Giobbe inizia a parlare, e incominciano a parlare anche
gli amici. Abbiamo dunque un Giobbe paziente nel prologo e poi nella parte in
poesia un Giobbe che comincia a parlare maledicendo la vita e lottando con Dio. E abbiamo gli amici del prologo
che saggiamente tacciono all’inizio, ma che poi nella parte in poesia si
mettono a parlare, ma non condividendo il dolore di Giobbe. Si mettono a
parlare ma dall’esterno, facendo quello che la saggezza suggerisce di non fare
e dicendo cose non giuste.
Ci sono tre cicli di dialoghi in cui Giobbe parla e gli
amici uno dopo l’altro parlano e Giobbe risponde. Ma Giobbe più che parlare
con gli amici si mette a lottare con Dio, fino a quando finalmente Dio gli risponderà.
Cerchiamo di capire cosa ci mette davanti questa parte del
libro. Innanzitutto Giobbe inizia al capitolo 3 a parlare maledicendo il giorno della sua
nascita e la notte del suo concepimento, dove questa maledizione è desiderio di
distruzione. Giobbe maledice, ma in realtà quello che Giobbe
dice è “perisca il giorno che io nacqui e
la notte che disse: È concepito un maschio” (3:3). Giobbe sta dicendo che non
vorrebbe essere mai nato. E siccome invece è nato, allora poi, sempre in questo
stesso capitolo, si mette a sognare di essere già morto e di essere nello Sheol
e finalmente di riposare.
Giobbe
innanzitutto - ed è fondamentale - non maledice Dio: vuole distruggere la sua vita, vuole esserne fuori, perché
questa vita è diventata insopportabile, però non maledice Dio. Desidera di
uscire da una situazione insopportabile che però, nonostante tutto, invece
accetta, perché Giobbe dice che non vorrebbe essere mai nato, poi dice che
vorrebbe essere morto, però in realtà rimane vivo, non si suicida, non può cancellare la sua
vita. Potrebbe uscirne uccidendosi, ma questo nemmeno lo sfiora
come pensiero: Giobbe è davanti a una situazione che dichiara insostenibile,
perciò accusa Dio, però continua a vivere chiedendo a Dio di spiegargli perché
mai gli stia succedendo tutto questo.
Gli amici cominciano a parlare e cominciano davanti a
questa denuncia di Giobbe, che è la denuncia del suo assurdo
dolore. I
loro discorsi che dovrebbero essere consolatori, dovrebbero secondo loro
riportare Giobbe sulla “retta via”. Abbiamo in questi tre cicli
di discorsi, da una parte la posizione degli amici, dall’altra la posizione di
Giobbe, che sono posizioni completamente diverse.
La posizione
degli amici è quella tradizionale, retributiva, che diceva: se uno fa il bene,
starà bene, se uno fa il male, starà male. Dunque se tu vedi uno che sta bene puoi tranquillamente
dire che lui è buono, se vedi uno che sta male puoi dire che lui è cattivo.
Una posizione di questo tipo oltre a essere
continuamente smentita fin dall’inizio della storia, fin dai primi capitoli
della Genesi, dove il primo a morire è proprio l’unico giusto che c’era, Abele,
oltre a essere contraddetta dalla realtà dei fatti, è contraddetta anche da
Giobbe, perché Giobbe è innocente, è giusto.
Gli amici prendono la teoria tradizionale della
retribuzione e la applicano a Giobbe, e la applicano in modo semplicistico e
automatico. Ti comporti bene? Avrai il bene. Ti comporti male? Avrai il male. No! La vita è più complicata
e non funziona così.
Questa teoria
tradizionale a cui si rifanno gli amici che poi è la teoria che troviamo nei
Profeti, nei libri Sapienziali, di per sé non è sbagliata, ciò che è sbagliato
è applicarla in modo semplicistico e automatico, come causa ed effetto. Fai il bene e stai bene, fai il male e stai male. Non è
così semplice.
In realtà questa teoria si appoggia su due punti
fondamentali. Il primo è la consapevolezza che le scelte etiche dell’uomo hanno una
loro forza intrinseca che prima o poi si manifesta. Il che vuol dire che se tu
fai il bene stai mettendo in circolazione una energia di bene e
questa ha una sua forza. Al contrario se tu fai il male metti in circolazione
una energia di male, e questa ha una sua forza. Quindi fare il male crea in
qualche modo il male, crea una situazione di male, e fare il male fa male anche
a chi fa il male. Chi commette il male, fa del male anche a se stesso. Questa è
una prima consapevolezza.
C’è poi la
certezza che l’uomo è inserito dentro un progetto salvifico di Dio che comprende
anche il male e che, siccome è
progetto salvifico di Dio, vince il male trasformandolo in bene.
Questa è la teoria retributiva e gli amici invece la
prendono in modo semplicistico, e questo non funziona. Ma in realtà, quando si commette
l’ingiustizia, quando c’è un peccato, il modo di rispondere non è punire il
colpevole, andare in tribunale, andare dal giudice e far sì che il colpevole
sia punito, perché tu in questo modo, impedisci al colpevole di continuare a
fare del male, però non lo converti, e quindi non risolvi il vero problema.
Il vero modo
di rispondere al male, dice la Scrittura, è di rispondere con il bene, con
l’amore. Quindi il mondo giuridico presentatoci da Gesù prevedeva che chi aveva ricevuto il male non mettesse di
mezzo il giudice, ma andasse direttamente dal colpevole per accusarlo di quello
che stava facendo, e questa accusa aveva lo scopo di aiutare il colpevole a
capire che facendo il male, lui si stava facendo del male. D’altro canto la
parte lesa che aveva ricevuto il male, perdonando il male, dimenticava quel
male e diventava preoccupata che il colpevole smettesse di farsi del male,
smettesse dunque di essere colpevole e si potesse così tornare ad essere in
comunione.
Questa è vera
giustizia perché si risponde al male con il bene, si risponde al peccato
perdonandolo e mettendo in opera tutto quello che si può per far sì che questo
peccato smetta di esserci, perché il
peccatore capendo quello che sta facendo smetta di fare il male e così il male
non ci sarà più, non ci sarà più l’ingiustizia, quindi ci sarà la vera
giustizia, e non ci sarà neanche più chi fa il male, perché chi fa il male
avendo capito si lascia convertire, si lascia perdonare e smette di fare il
male. Ecco
il trionfo della giustizia, l’ingiustizia non c’è più e non c’è più chi fa del
male, non serve nemmeno più punirlo.
L’Antico Testamento applica tutto questo a Dio dicendo che
Dio si comporta così con l’uomo per aiutarlo a capire che sta facendo il
male, così che il peccatore si lasci convertire e possa essere perdonato. Dio offre il perdono allo
scopo di convertire l’uomo.
In questa visione si potrebbe anche capire una possibile
funzione della sofferenza e del dolore. Siccome il dolore, la sofferenza e la morte
sono la conseguenza del peccato, hanno proprio questa funzione di mettere il
peccatore davanti alle conseguenze dolorose del proprio peccato,
così che sperimentando quanto male fa il male, quanto male fa fare il male,
l’uomo smetta di farlo, si lasci convertire e si lasci perdonare e ridiventi
santo.
Ecco che la sofferenza potrebbe essere questo cammino
attraverso il quale Dio stimola il peccatore perché il peccatore prenda
coscienza del suo male e si lasci perdonare. Potrebbe, perché in
realtà, come ho detto prima, questo non funziona mai in modo automatico e
soprattutto non va mai interpretato come: “Quello ha fatto il male, allora
adesso soffre”, oppure “quello soffre perché Dio gli vuole far capire che ha
fatto il male”, non funziona così, il discorso è molto più globale. Quello che
succede nel libro di Giobbe è che gli amici lo prendono in modo semplicistico e
allora dicono a Giobbe: “Ecco, il tuo problema si risolve facilmente! Tu stai
soffrendo perché Dio ti punisce, affinché tu capisca che hai fatto il male.
Convertiti e vedrai che tutto tornerà come prima!”
Questo è
falso, perché Giobbe è innocente, questo è perfino perverso, perché somiglia
tanto al discorso di Satana: ami Dio solo perché hai paura che Dio ti punisce o
perché ti conviene, ne hai un tornaconto. Questa è la posizione degli amici, che chiaramente non funziona,
perché Giobbe è innocente. Giobbe allora dice: “Questo non funziona, perché io
sono innocente, quindi io non posso accettare che Dio mi stia punendo per
qualcosa, ma se lui mi sta punendo perché vuole che io mi converta dal
male, dal
momento che questo male non c’è, questa punizione è completamente ingiusta.
Allora adesso sono io, Giobbe, che metto sotto processo Dio per mostrargli che
quello che sta facendo è ingiusto”.
È così che va capito il libro di Giobbe. Giobbe in questo modo però
cade nella trappola degli amici, perché anche lui va in cerca del colpevole:
questo è il problema. Gli amici stanno interpretando male e, di
fatto, nel
libro Dio non accusa mai Giobbe di aver fatto il male, quindi sono completamente
fuori strada, ma in qualche modo portano fuori strada anche Giobbe perché anche
lui cade nella trappola di credere che se c’è del male qualcuno deve essere
colpevole. Se non sono colpevole io, allora sarà colpevole Dio.
Questo è il problema che ogni uomo ha davanti alla
sofferenza: alla sofferenza noi diamo un valore accusatorio. Vediamo il dolore e
diciamo: “Chi è che ha fatto il male? Chi è il colpevole?” È
colpevole l’uomo oppure non è colpevole, e allora è colpevole Dio che ha
permesso che questo male cadesse su un uomo che è giusto. Noi andiamo
continuamente in cerca del colpevole. È colpevole l’uomo? Abbiamo risolto il
problema. Non è colpevole l’uomo? Allora inevitabilmente noi facciamo sì che la
sofferenza diventi un’accusa a Dio, come Giobbe, dicendo che è Dio il
colpevole.
È Dio il
principio del male? No, questo non si può dire e non lo dice mai neppure
Giobbe. Ma allora il male avviene perché lui permette il male? Sembrerebbe di
sì, ma Giobbe non lo dice. Il
problema allora è che dobbiamo fare il processo a Dio anche noi,
insieme a Giobbe, cioè lottare con una falsa idea di Dio per trovare la vera
immagine di Dio. Giobbe si mette a lottare con Dio, ecco il processo, perché vuole
che Dio cambi, perché vuole che Dio si converta, prenda coscienza
che quello che sta facendo non è secondo Dio, allora bisogna che Dio si rimetta
a fare Dio, come Dio.
È questa la
lotta del credente con Dio, e dico del credente perché Giobbe è un gigante
della fede. Questa è la lotta del
credente, è la lotta di Giobbe che, davanti a un Dio che sembra diventato cattivo e
ingiusto, dice: “No! Non è vero, Dio è buono e Dio è giusto! Io non mi rassegno
all’idea che Dio possa essere cattivo e ingiusto e allora lotto con lui perché
voglio ritrovare il Dio buono e giusto in cui io ho sempre creduto e in cui io
continuo a credere e non rinuncio a credere a questo”.
Allora bisogna che sia Dio a cambiare, io non voglio
cambiare. Io non voglio cambiare la mia immagine di Dio, perché so che Dio è
buono, io non accetto di dire che è cattivo. I fatti sembrano dire
questo però, c’è un innocente che soffre, i fatti sembrano dire che Dio è
cattivo. Ebbene, io, Giobbe, io credente, dico no, non è vero, Dio è buono. Io
non cambio. Dio è buono e allora adesso io lotto con Dio perché lui finalmente
si manifesti per ciò che è, buono e giusto, e dunque io possa
lodarlo nuovamente per ciò che è, anche davanti a questi fatti che sembrano
contraddire la realtà.
Leggendo il
libro di Giobbe troviamo delle frasi che sembrano delle bestemmie. Tu, Dio, sei
cattivo, tu uccidi l’uomo… In realtà è il processo! Quello che Giobbe
vuole è che Dio possa finalmente rimanifestarsi per ciò che è, e questo perché Giobbe crede nel Dio buono e ha a cuore
che il Dio buono si manifesti come buono a tutti.
A volte i
Salmi riportano preghiere in cui si dice a Dio: Svegliati, che fai dormi?
Perché lasci che le nazioni dicano: dov’è il loro Dio? Questo è il problema,
davanti al dolore, la domanda è: Ma Dio dov’è? Che fa? È andato in vacanza? Sta
giocando a carte? Dov’è Dio? Se
n’è andato? Perché il male trionfa, l’innocente viene perseguitato, la violenza
regna, i bambini muoiono, gli uomini vengono perseguitati, e Dio che fa? Dov’è?
Questa è la domanda.
Giobbe vuole
che Dio si manifesti per ciò che è, così che nessuno possa dire: Ma Dio dov’è?
Oppure, come gli amici: Stai male? È colpa tua! Soffri? È perché sei colpevole!
È perché hai commesso peccato! Questi
sono gli amici. Giobbe non vuole questa tesi, ma non vuole neppure che Dio non
intervenga per manifestarsi per come realmente è.
Alla fine dei
suoi discorsi allora Giobbe giura la sua innocenza e dice: “Basta, è andata, se devo morire muoio, non m’importa più niente, io sono
innocente, giuro, metto pure la firma, firma il documento di innocenza. Succeda quel che succeda
io vado incontro a Dio e Dio adesso mi dovrà rispondere”. E
dopo un breve intervallo nel quale interviene un tal Elihu che però non
aggiunge niente di decisivo al dibattito, Dio finalmente risponde, e risponde
mettendosi a fare delle domande.
Comincia a
chiedere a Giobbe: “Tu dove eri quando io costruivo la Terra? Dove eri quando
io fermavo il mare perché non straripasse sulla terra? Dove eri quando io
creavo le stelle? Tu sai come si
fa a dar da mangiare ai leoni, o ai figli del corvo? Tu sai come si fa a far
partorire i camosci? Sai come si fa a tenere la Terra stabile sulle sue
colonne? Tu sai come si fa a tenere insieme le costellazioni? Beh, tu saprai
dove sono la brina, la neve no? Dimmelo!”.
Cosa fa Dio?
Con queste domande mette Giobbe davanti ai misteri belli del Creato per aiutare
Giobbe a capire, e qui fa il processo a Giobbe, ma quello vero, non quello
falso degli amici. Dio vuole aiutare
Giobbe a capire che l’uomo è davanti a dei misteri che non si possono capire, e
allora lo mette davanti ai misteri del Creato, lo mette davanti ai misteri
delle cose del mondo.
Giobbe le conosce, conosce le stelle, la neve, la brina, i
leoni e i camosci, è il suo mondo. Ma Giobbe adesso è costretto ad ammettere che è il
suo mondo, ma lui non ne sa niente, non lo capisce! Ci sono misteri davanti ai
quali si deve fermare. E se ci si deve fermare davanti ai
misteri delle stelle, quanto più ci si deve fermare davanti al mistero della
vita dell’uomo. Posso pure capire come fanno le stelle a muoversi, perché ci sono delle
leggi che prima o poi riusciremo a scoprire, ma la vita dell’uomo no, perché
c’è dentro la libertà.
Allora Dio
mostra a Giobbe un creato bello e buono, così che Giobbe capisca che Dio, che
ha fatto quelle cose è bello e buono e che lui, Giobbe, invece quelle cose non
le ha fatte, è piccolo e si deve fermare davanti al mistero e deve dire: “Ebbene, l’uomo non può capire tutto,
deve sapersi fermare”. Allora l’uomo non può capire la sofferenza, che però non è più
accusatoria, perché non si può spiegare, né accusando l’uomo, né accusando Dio.
Quando Giobbe
capisce questo e dice: “Basta, non parlo più”, Dio insiste e questa volta gli
fa vedere le cose mostruose, i mostri marini, perché adesso Dio va a toccare un
punto nevralgico e dice a
Giobbe: “Ascoltami bene, adesso tu ti metti a fare Dio, ti rivesti di maestà e
potenza, distruggi il male in un attimo, fai tutto quello che io non ero capace
di fare, e io, che mi metto a fare l’uomo, ti loderò!”. Dio dice: “Scambiamoci le
parti, tu mi accusavi di non saper fare Dio come Dio deve fare? Allora fallo
tu, Dio. Risolvi il problema del male, se sei capace e
allora io ti loderò!”.
Dio sta
toccando il punto nevralgico che è il problema eterno dell’uomo. Accettare di
essere uomo e non Dio, accettare che Dio sia diverso dall’uomo. Questo è il nostro problema. Il problema di Giobbe è il
nostro di sempre. “Ma perché Dio ha fatto questo? Ma perché Dio ha permesso
quest’altro?”. Dio ci dice: “Ah, sì? Fallo tu! Scambiamoci le parti. Se tu sai
fare Dio così bene, meglio di me, scambiamoci le parti!”.
La vera potenza
di Dio non è quella che noi pensiamo, quella di Superman, di uno che interviene
e risolve con la bacchetta magica. La potenza di Dio è talmente potente da
poter entrare nella debolezza dell’uomo, addirittura facendosi uomo per portare
l’uomo alla salvezza. Quella è la
potenza di Dio. Convertire i cuori.
Quella è la potenza di Dio. La vera potenza di Dio è convertire i cuori e
salvare l’uomo. Finalmente Giobbe, davanti a questo, capisce.
Capisce di non poter capire e accetta il mistero e allora la famosa frase:
“Prima ti conoscevo per sentito dire, ora finalmente i miei occhi ti vedono”.
Quando Giobbe dice questo è ancora malato, ancora senza niente, nella
disgrazia. Entra nella benedizione così come è. Malato, senza
capire niente.
A questo punto l’epilogo racconta che Dio gli restituisce
tutto. Perché Giobbe ha potuto dire: ”Ora i miei
occhi ti vedono”.
E dopo aver
detto questo Giobbe può persino perdonare gli amici e fare i sacrifici per
loro. Giobbe è entrato nella benedizione perché ora vede Dio e perdona come
perdona Dio. Allora è beato, è
benedetto e per dire questo l’epilogo dice che Giobbe è ridiventato ricco, che
Giobbe è guarito e felice.
Non è un lieto
fine, perché i figli morti rimangono morti, perché il tempo della sofferenza a
Giobbe non lo restituisce nessuno. Adesso però pur nella sofferenza Giobbe è
entrato nella benedizione perché
dentro la sofferenza e dentro la morte, Giobbe sa che Dio, la sofferenza e la
morte, sono tutte realtà che bisogna accettare nel mistero e che accettando il
mistero gli occhi si aprono, vedono cose diverse: “Ora i miei occhi ti vedono”.
Se accettiamo
il mistero è possibile vedere il Dio buono anche dentro il dolore. Il libro di
Giobbe non dà una risposta vera al problema del bene e del male. O meglio, dà
una risposta vera, ma non di tipo logico, con spiegazioni dettagliate. La risposta del libro di Giobbe è una
risposta esperienziale, la risposta del libro di Giobbe è: “Se volete capire il
senso del dolore e della morte, dovete entrarci dentro continuando a credere
che Dio è buono. Dovete cambiare il cuore, accettare che Dio è Dio, dovete
accettare il mistero”.
E il male
dunque rimane un mistero, però Dio può essere riconosciuto come Dio buono anche
nel dolore, e come il Dio della vita anche nella morte. Giobbe pone la domanda in tutta la sua drammaticità,
perché è un uomo che lotta, che grida, che accusa Dio, che non ha paura di
chiamare le cose con il loro nome, perché è l’uomo di fede che combatte dentro
la crisi della fede.
Giobbe ha
posto la domanda, la risposta la possiamo trovare a Pasqua, quando con il
Figlio di Dio che muore e risorge, lì finalmente finisce la morte, perché viene
vinta, e lì finisce anche la colpa, il male viene vinto. Di questo innocente che muore e questa volta Innocente
con la I maiuscola, perché è il Figlio di Dio, e Gesù muore perdonando,
distruggendo la colpa e dicendo: “Padre,
perdona loro perché non sanno quello che fanno”.
“Perdona loro”,
il male c’è, ma “non sanno quello che fanno”.
Se noi accettiamo questo, accettiamo di essere quelli che quando facevano il
male non sapevamo quello che facevamo e perciò adesso si lasciano finalmente
perdonare da Dio, se noi entriamo dentro questa dinamica, allora anche la nostra
colpa è cancellata, la colpa è distrutta e diventiamo, anche noi, innocenti.
Non c’è più
niente che ci possa accusare. Noi siamo liberi dalla colpa per quella morte e niente più allora, se noi accettiamo di essere
questi che si lasciano perdonare, niente più ci può accusare perché non solo
Gesù è risorto e ha distrutto la morte e ha distrutto la colpa, ma quell’unico segno che
poteva ancora accusarci, il corpo morto di Gesù che poteva accusarci di essere
stati assassini, quel corpo non c’è più, la tomba è vuota. Questo è il grande
annuncio di Pasqua.
Per concludere, la risposta al problema della sofferenza è
la vita stessa di Cristo. Egli non cancella il dolore dal mondo, ma lo assume
in sé e, attraverso di esso, ripara il peccato e apre le porte del Regno dei
cieli. Così anche per i suoi discepoli: «Se
uno vuol venire dietro a me, rinunci a se stesso, prenda ogni giorno la sua
croce e mi segua» (Luca 9:23). In questa prospettiva di comunione alla
sofferenza di Cristo, si può comprendere la sorprendente affermazione di Paolo:
«a voi è stato dato, rispetto a Cristo,
non soltanto di credere in lui, ma anche di soffrire per lui» (Filip.
1:29). Allora la sofferenza umana si illumina di nuova luce: è grazia e dono
divino e prepara per noi una quantità smisurata ed eterna di gloria (2Cor.
4:17). Si può gioire anche nella persecuzione: «Ed essi se ne andarono dalla presenza del Sinedrio, rallegrandosi di
essere stati reputati degni di essere vituperati per il nome di Gesù» (Atti
5:41), ed essi insegnarono agli altri a fare altrettanto: «in quanto partecipate alle sofferenze di Cristo, rallegratevene,
affinché anche alla rivelazione della sua gloria possiate rallegrarvi
giubilando. Se siete vituperati per il nome di Cristo, beati voi! perché lo
Spirito di gloria, lo Spirito di Dio, riposa su voi» (1Piet. 4:13,14).
Paolo è contento di soffrire perché sa che ne viene del bene per la Chiesa: «Ora mi rallegro nelle mie sofferenze per
voi; e quel che manca alle afflizioni di Cristo lo compio nella mia carne a pro
del corpo di lui che è la Chiesa» (Col. 1:24).
Sopra la porta della cella di padre Pio si legge anche
oggi la scritta: “La croce è sempre pronta e ti aspetta ovunque”. La penitenza
che più piace a Dio è il dolore dei propri peccati, il portare con dolce
rassegnazione la propria croce.
L’uomo, chiamato ad essere felice, se non riesce a dare un
senso alle proprie sofferenze, cerca semplicemente di eliminarle in tutti i
modi, ma non è nella mancanza di pene e prove che troveremo il nostro
appagamento.