I protestanti, che non vogliono riconoscere
alla Vergine il ruolo assegnatale dai cattolici, hanno indottrinato che, nel
racconto di Cana, Gesù intese evidenziare la netta separazione tra la propria persona
e la madre-donna, la quale non doveva interferire nelle questioni divine.
"1Tre
giorni dopo, si fecero delle nozze in Cana di Galilea, e c'era la madre di
Gesù. 2E Gesù pure fu invitato con i suoi discepoli alle nozze. 3E
venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: Non hanno più vino. 4E
Gesù le disse: Che v'è fra me e te, o donna? L'ora mia non è ancora venuta. 5Sua
madre disse ai servitori: Fate tutto quel che vi dirà" (Giov. 2:1-5).
La novità dei tempi messianici sono scanditi da Giovanni
secondo una sequenza temporale di sette giorni, raccolti in cinque narrazioni,
che richiamano da vicino la settimana della creazione genesiaca, facendo
dell'evento Gesù e della nuova comunità messianica una nuova creazione:
1) primo giorno (1:19-28):
Queste cose avvennero in Betania al di là del
Giordano, dove Giovanni stava battezzando (v. 28).
2) secondo giorno (1:29-34):
Il giorno seguente, Giovanni era di nuovo là con due dei suoi discepoli (v. 29)
3) terzo giorno (1:35-42):
Il giorno seguente, Giovanni era di nuovo là con due dei suoi discepoli (v. 35)
4) quarto giorno (1:43-51):
Il giorno
seguente, Gesù volle partire per la
Galilea; trovò Filippo, e gli disse: Seguimi (v. 43)
5) settimo giorno (2:1-11):
Tre giorni
dopo, si fecero delle nozze in Cana
di Galilea, e c'era la madre di Gesù (v. 1)
La traduzione di Giov. 2:1 non è corretta: nel testo greco
non c’è scritto "tre giorni dopo",
ma "il terzo giorno". È strano che Giovanni dopo aver ripetuto, quasi con fare
ossessivo, l'espressione "il giorno seguente",
apra il cap. 2 con le parole kai tē hēméra
tē tritē, "e al giorno terzo";
è talmente strano che i traduttori hanno pensato di rendere il racconto narrativamente più logico traducendo "tre
giorni dopo". Ma se Giovanni ha preferito scrivere
"il terzo giorno", ciò è dovuto a un duplice motivo: a) nell'AT
l'espressione "terzo giorno" ricorre 30 volte e indica sempre il giorno dell'accadere
di un evento significativo; b) nel N.T. ricorre 12 volte, di
cui 11 si riferiscono alla risurrezione di Gesù. Il terzo giorno, dunque, ha
una valenza particolare: esso parla di un accadimento significativo e questo è
la risurrezione di Gesù. Non a caso il racconto delle "nozze di Cana" si
apre con l'espressione "il terzo giorno" e si conclude affermando che in questo giorno Gesù manifestò la sua gloria (v. 11). Il
racconto, dunque, ha come sfondo la risurrezione.
La narrazione è fortemente simbolica. Abbiamo visto come questo
"terzo giorno" in realtà è il "settimo
giorno" del Vangelo di Giovanni; ma nello
stesso tempo si presenta come "terzo
giorno". È ambivalente, e anche i fatti
che accadono in questo terzo giorno, di conseguenza, assumono significati ambivalenti.
L’evangelista inizia il suo vangelo con un chiaro
riferimento alla Genesi, e qui, il settimo giorno dice il compiersi di un
tempo, quello veterotestamentario, giunto a suo compimento e, quindi, venuto a
scadere. Anche la festa di nozze, pertanto, in questo contesto teologico, è
giunta al suo termine. Lo lascia intendere lo stesso maestro di tavola, che
rivolto allo sposo, lo loda per aver conservato il vino buono fino alla fine
(v. 10).
9E quando il maestro di
tavola ebbe assaggiata l'acqua ch'era diventata vino (or egli non sapeva da
dove venisse, ma ben lo sapevano i servitori che avevano attinto l'acqua),
chiamò lo sposo e gli disse: 10Ognuno
serve prima il vino buono; e quando si è bevuto largamente, il meno buono; tu,
invece, hai serbato il vino buono fino ad ora.
La festa delle nozze allude all'alleanza tra Dio e il suo
popolo, espressa nella Torah. Spesso il rapporto Dio-Israele viene
metaforicamente indicato come il rapporto tra la sposo (Dio) e la sposa
(Israele). Creato questo contesto di festa nuziale, metafora di un tempo giunto
ormai al suo compimento, Giovanni vi colloca dentro la madre di Gesù: "e c’era la madre di Gesù" (v. 1). Il passo conferma il ruolo della Vergine nel
racconto. Non solo compare per prima, ma è anche la prima, nel giorno del primo
miracolo, a parlare.
Il v. 2 mette all'interno di questa festa
nuziale, dove già si trova la madre di Gesù, anche Gesù e i suoi primi
discepoli. Gesù, dunque, si colloca, come sua madre, all'interno del mondo
veterotestamentario, e non poteva essere diversamente.
I vv. 3-5 sono
riservati al dialogo tra Gesù e sua madre, da cui emergerà la relazione tra i
due e, in particolar modo, l'evoluzione spirituale di Maria, che è chiamata a
collaborare con suo figlio alla missione che il Padre gli ha affidato. Si
tratterà per Maria di passare dal "settimo
giorno", in cui si trovava, al "terzo giorno".
Il terzo giorno non è come il sette, che è il punto di
arrivo e di una compiutezza giunta a maturazione; per questo il sette indica la
perfezione, ma anche la fine di un'opera, a cui non c'è più nulla da
aggiungere. È proprio nel settimo giorno, infatti, che Dio porta a compimento
la creazione, la conclude e l’affida all'uomo perché la lavorasse e la
custodisse (Gen. 2:15). Il tre, invece, parla sempre del superamento di una dualità,
aprendo a qualcosa di nuovo: è nel terzo giorno che Dio scende sul monte Sinai;
il terzo giorno un sacrificio non poteva più essere mangiato ma doveva essere
bruciato. Le nozze di Cana si collocano nel terzo giorno, in cui la "madre di Gesù" diventa "donna", prendendo
parte alla missione del Figlio; mentre Gesù manifesta la sua gloria. Ecco
allora che queste nozze, collocate nel terzo giorno acquisiscono un significato
completamente nuovo, parla di un'era messianica, di cieli nuovi e di terra
nuova.
Il v. 3 ci presenta il motivo su cui è incentrato
tutto il racconto: "E venuto
a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: Non hanno più vino". Ecco il problema: il vino è venuto meno nel corso della
festa nuziale e si constata che non ce n'è più. Un banchetto nuziale senza vino
rende insipida la festa.
Se si pensa alle nozze come al rapporto tra Dio e il suo
popolo, allora la mancanza di vino, bevanda che esprime l'abbondanza dei tempi
messianici e la pienezza del rapporto tra Dio e il suo popolo, denuncia come
questo rapporto sia venuto meno. La mancanza di vino evidenzia la sterilità di
un culto che era diventato vuoto, che Gesù denuncerà nell'episodio di quel fico
ricco di foglie ma privo di frutti e che colpirà con la sua maledizione.
Venendo a mancare il vino, Maria si preoccupa subito, segnalando
la cosa a suo figlio. È una preoccupazione materiale. Si tratta di tappare un
buco organizzativo, nato probabilmente da una cattiva valutazione. Il rapporto
che Maria ha qui con Gesù è ancora di tipo terreno.
Il v. 4 riporta l'incredibile risposta di Gesù: "E Gesù dice a lei:
Che v’è fra me e te o donna? Non è ancora giunta la mia ora". La risposta di Gesù a sua madre sembra essere di una
villania e di un egoismo unici, quasi offensivi. Ha forse presenziato alle
nozze per insegnarci a disprezzare la madre? Era andato alle nozze di un uomo
che prendeva moglie per generare dei figli, e che certamente aspirava a essere
onorato dai figli; e Gesù avrebbe partecipato alle nozze per mancare di
rispetto alla madre? È impossibile che Gesù abbia offeso la madre
pubblicamente, durante un ricevimento al quale era lei ad essere stata invitata
in una posizione di riguardo, come evidenziano i vv. 1-2. Può un figlio dire
che non ha nulla a che fare con sua madre?
Il greco ha: ti emoi kai soi, dove abbiamo ti + pronome personale dativo + kai + dativo, che sarebbe: che cosa a me e a te? Già nel greco
classico in Platone (Gorg. 455D2), e poi in Porfirio (Abst 4.18), ti + dativo in una domanda significa "che
cosa importa (a te/a noi?)". Ulteriori conferme vengono dall’esegesi
patristica in una lettera di Teodoreto a Giustino, dove per questo autore, ti emoi kai soi significa: "Che cosa
(importa) a me e a te?" È interessante anche la
traduzione della Vulgata che recita Quod mihi et tibi est, mulier ['];
nondum venit hora mea; (che cosa è
a me e a te donna? Non è venuta l’ora mia) l’aggiunta del verbo essere dà l’esatta percezione che i latini
avevano della risposta di Gesù, certo ben diversa da quella delle nostre
traduzioni.
Rimanendo aderenti alla traduzione letterale, visto che per
renderla più chiara in italiano è necessario aggiungere un verbo, si può dire "che cosa importa a me e a te",
oppure, "che cosa si può fare sia io che
te", oppure "la cosa non ci riguarda", "è una cosa che non dovrebbe interessarci".
Anche esaminando dei semitismi simili presenti nell’AT, notiamo come
la traduzione potrebbe avere una "sfumatura
differente" rispetto a quella proposta. Riportiamo
il passo di 2Sam. 16:10 dove troviamo il Re Davide che viene insultato da un
certo Simei. Un soldato del Re chiede di intervenire per metterlo a tacere; in
grassetto il dialogo tra questi due ultimi:
Ma il re rispose: 'Che ho io da far con voi, figli
di Tseruia? Se egli maledice, è perché l'Eterno gli ha detto: - Maledici
Davide! E chi oserà dire: - Perché fai così?'
Nel greco dei LXX l’inizio della risposta di
Davide alla lettera è: "Che cosa a me e voi figli di
Tseruia". Una sua migliore traduzione a
senso, visto che Davide si lascia dire da Simei quello che vuole, sarebbe
stata: "Cosa possiamo fare io e voi
figli di Tseruia, se maledice è perché il Signore gli ha detto: Maledici Davide".
Va precisato che l’espressione "che cosa a me e a te" non sia tipicamente semitica: anche in italiano l’espressione "e a me e a te?" come risposta o commento a
qualcosa detto da un interlocutore è chiarissima e di uso corrente, magari
accompagnata da un verbo, come nella frase: "E a me e te cosa ne viene?"
In definitiva è il contesto a
dare la giusta sfumatura alla frase e quindi alla sua traduzione. È necessario, quindi, capire il senso della risposta di
Gesù.
a) vi è una
questione di interessi: "Che cosa (importa) a me e a te". Gesù
invita sua madre ad aprirsi a una nuova visione delle cose, che trascende la
semplice logica umana: lui non è venuto a fare da tappabuchi alle deficienze
organizzative umane, ma a compiere la volontà del Padre suo. Sono altri i suoi
interessi. E in questi interessi di Gesù è coinvolta anche Maria. Gesù infatti
non si limita a dire "che cosa importa a me", ma aggiunge anche "e a te". Con questo richiamo Gesù aggancia sua madre
alla propria missione, facendone quasi una sorta di suo braccio destro. Un
aggancio significato da quel kaì (e),
che salda assieme il "me" di Gesù al "te" di Maria.
b) Vi è anche una
nuova ridenominazione: Maria non è più chiamata "madre", bensì
"donna", spostando l'accento dai rapporti carnali a quelli
spirituali. Gesù assegna a sua madre un nome nuovo: donna (gynai).
Il nome per l'ebreo indica l'essenza stessa della persona.
Imporre il nome a una persona significa avere autorità su di essa, mentre
assegnarne uno nuovo indica che quella persona non è più quella di prima, ma è
entrata a far parte di una nuova dimensione ed è chiamata a svolgere quella
missione che il suo nuovo nome le assegna. Pertanto con il termine "donna"
Gesù assegna a sua madre un nuovo ruolo: essa non è più una figlia di Israele,
che gli ha dato carnalmente la vita, ma è la figlia di Sion ideale, che nell'AT
viene presentata con i tratti di una donna e più precisamente di una sposa, e
madre di nuovi figli, discepoli del Signore.
Poiché il tuo creatore
è il tuo sposo; il suo nome è: l'Eterno degli eserciti; e il tuo redentore è il
Santo d'Israele, che sarà chiamato l'Iddio di tutta la terra. Poiché l'Eterno
ti richiama come una donna abbandonata e afflitta nel suo spirito, come la
sposa della giovinezza ch'è stata ripudiata, dice il tuo Dio … Tutti i tuoi
figli saranno discepoli dell'Eterno, e grande sarà la pace dei tuoi figli (Is. 54:5,6,13).
Il nuovo nome con cui Maria è stata insignita ne fa di lei
una nuova creatura, una nuova creazione. Ora lei è "donna".
Perché proprio "donna"? In greco la parola gynē al vocativo è una forma
d’appellativo che non comporta alcuna sfumatura dispregiativa. Presso i greci e
gli orientali la parola donna veniva
usata per designare le persone degne di rispetto. Era sinonimo di signora. Il termine greco che viene tradotto con "donna", gynai vocativo di gyne (o donna!), a
questa voce il Vocabolario
della lingua greca di Franco
Montanari (Loescher Editore) precisa che al vocativo significava proprio Signora; era l’equivalente
della Domina latina, da cui Madonna, mea domina.
Pertanto, il termine "donna" è solo apparentemente irrispettoso. In Giovanni, poi, è
un segno grandioso mediante il quale è definita la
Vergine incoronata dell'Apocalisse (Apoc. 12:1), la donna rivestita del sole
con la luna sotto i piedi e con una corona di dodici stelle.
Il vocabolo "donna", inoltre, è l'unica voce
possibile per racchiudere un'idea inconcepibile dalla mente umana e, quindi,
non codificata nei linguaggi con un termine specifico: l'idea del rapporto
familiare che c'è tra Gesù e Maria. Un rapporto che soltanto un endecasillabo
dantesco è stato in grado di sintetizzare al meglio: "Vergine Madre,
figlia del tuo figlio" (Paradiso,
XXXIII, 1).
L’ora mia non è
ancora venuta. A cosa si riferisce Gesù?
Al momento in cui Egli avrebbe dovuto manifestare con i miracoli la sua
potenza? Forse sì e forse no. Se è sì, allora per la preghiera di Maria farà
quanto gli viene domandato anche se non è giunta la sua ora. Dinanzi alla madre
c’è l’arrendevolezza del Figlio, il quale, pur manifestando la non coincidenza
tra ciò che lui è chiamato a fare e ciò che la madre gli suggerisce di fare,
deve accondiscendere alla sua richiesta, per il solo fatto che alla madre non
può dire no. Dovremmo, quindi, tutti imparare da Gesù come si onorino e si
rispettino i genitori. Gesù concede alla madre l’onore di essere stata lei a
chiedergli il primo miracolo e questo nonostante non fosse l’ora sua.
Ma c’è un problema con questa interpretazione. Al v. 2
leggiamo che Gesù aveva già dei discepoli, quindi era già stato battezzato,
aveva già superato del tentazioni sataniche nel deserto, e dunque la sua ora
era già iniziatra. Ma allora cosa significa: l’ora mia non è ancora venuta?
1) Gesù le disse: Che v’è fra te e me, o donna? L'ora mia non è
ancora venuta" (Giov.
2:4)
2) Perciò cercavano di prenderlo; ma nessuno gli mise le
mani addosso, perché la sua ora non era ancora venuta (Giov. 7:30)
3) Queste parole disse Gesù nel tesoro, insegnando nel
tempio; e nessuno lo prese perché non era ancora venuta l'ora sua
(Giov.
8:20)
4) Gesù rispose loro: "È venuta l'ora,
nella quale il Figlio dell'uomo sarà glorificato...E che dirò io? Padre,
liberami da quest'ora. Ma io sono venuto appunto per quest'ora" (Giov. 12:23,27)
5) Ecco, viene l'ora, anzi è già venuta,
in cui voi sarete dispersi, ciascuno per conto suo, e mi lascerete solo; ma io
non sono solo, perché il Padre è con me" (Giov. 16:32)
6) Così parlò Gesù. Poi, elevati gli occhi al cielo, disse:
"Padre, l'ora è venuta: glorifica il tuo Figlio,
affinché il tuo Figlio glorifichi te" (Giov. 17:1)
Ora, essendo impensabile che una simile ricorrenza non
abbia un valore informativo, si può soltanto affermare che l'ora alla quale il
Figlio fa riferimento nelle Nozze di Cana non è quella di fare miracoli, bensì
quella della glorificazione, dell'elevazione sulla croce. Questo rende tutto
più chiaro. Gesù non rifiuta che sia giunta l'ora del miracolo del vino di
Cana, né prende distanza dalla madre. Egli afferma, profeticamente, che ancora
non è venuta l'ora del vino dell'Ultima Cena, segno della Passione.
Il senso letterale delle sue parole, allora, diviene
commovente piuttosto che distaccato. La sua diventa la risposta di un figlio,
turbato alla vista del primo segnale della via che porta al Calvario. Un figlio
il quale si rivolge alla madre, come per rassicurarla, dicendole: "Che
cosa (importa) a me e a te, o donna? Non è ancora venuta l'ora del
Vino dell'Ultima Cena". Il riferimento - e da questo il Figlio prende
le distanze, non già dalla Madre - è per l'ora nella quale egli avrebbe
anticipato, nel segno del versamento del vino, il sangue sparso sulla croce.
Il v.5 rileva il mutamento avvenuto in Maria, che
la porta ad agire nel suo nuovo ruolo di collaboratrice alla redenzione: "Sua madre disse ai servi: Fate tutto quello
che vi dirà". Maria dà disposizione ai
servi.
Significativo è come si conclude questo episodio delle
nozze di Cana:
Dopo
questo, scese a Capernaum, egli con sua madre,
con i suoi fratelli e i suoi discepoli; e stettero qui non molti giorni (Giov. 2:12)
Maria viene presentata come una che, ora, si accompagna
assieme a Gesù.
Dopo che a Maria è stato assegnato il nome nuovo di "donna"
non è più chiamata "madre di Gesù", ma semplicemente "sua madre" (v. 5). Ciò significa
che essa è ora identificata come "donna" e "madre". Essa è
colei che è chiamata, non solo a generare i nuovi figli di Dio, ma anche
conservarli nella sua Parola: "Fate
tutto quello che vi dirà". Un ruolo che le viene ufficialmente
insignito da Gesù morente sulla croce:
Gesù dunque, vedendo
sua madre e presso a lei il discepolo ch'egli amava, disse a sua madre: Donna,
ecco il tuo figlio! Poi disse al discepolo: Ecco tua madre! E da quel momento,
il discepolo la prese in casa sua (Giov. 19:26,27)
Il testo greco legge tēn
mētéra, "la madre", non "sua
madre" come erroneamente traduce il testo. Essa ora è la nuova madre
della comunità credente a cui essa è assegnata con autorità divina e al cui
interno ricopre il ruolo di colei che indica ai servi, la giusta via: "Fate tutto quello che vi dirà".
Questo invito di Maria ai servi, "Fate tutto quello che vi dirà", richiama da vicino l'impegno
che il popolo ebraico assunse di fronte a Dio, di fare tutto quello che Egli
comandava:
E
tutto il popolo rispose concordemente e disse: 'Noi faremo tutto quello che
l'Eterno ha detto' (Es. 19:8).
Poi
prese il libro del patto e lo lesse in presenza del popolo, il quale disse: 'Noi
faremo tutto quello che l'Eterno ha detto, e ubbidiremo' (Es. 24:7)
I servi a cui si rivolge Maria, presenti alla festa delle
nozze di Cana, richiama il mondo veterotestamentario, e stanno per assistere al
passaggio a delle nuove nozze, a un nuovo patto, in cui non c’è più Mosè che
media per il popolo, ma c’è la madre di Gesù, che indirizza questi servi verso
Gesù che è Yahweh incarnato. Siamo, dunque, nel contesto di un nuovo patto, a
cui il nuovo Israele è chiamato a entrare e a farne parte.
Ciò è confermato
dal comando di Gesù a questi servi, il cui compito è quello di riempire le
giare che servivano per la purificazione giudaica. È dunque da pensare che
questi servi siano la metafora di quel mondo giudaico sensibile ai valori del
Regno, da cui attendevano la redenzione e il riscatto di Israele (cfr. Luca 2:25,36).
Or
c'erano qui sei giare di pietra, destinate alla purificazione dei Giudei, le
quali contenevano ciascuna due o tre misure. Gesù disse loro: Riempite d'acqua
le pile. Ed essi le riempirono fino all'orlo (Giov. 2:6,7)
Il concetto d'acqua per la purificazione rinvia
direttamente alle prescrizioni della legge mosaica. Sono di pietra, come le
tavole della Legge. Sono in numero di sei a indicare l'incompletezza,
l'insufficienza della stessa legge (6 = 7–1, cioè manca qualcosa per
raggiungere la perfezione che è nel sette). Sono da riempire perché vuote o
semivuote, nel senso che i comandamenti non sono pienamente osservati. Sono da riempire,
per indicare che sono da perfezionare con la trasformazione dell’acqua in vino,
la pienezza del Nuovo Patto.
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