La conversione
Premessa
La distanza tra Dio e l'uomo Israele la impara quando Dio parla
al popolo dal monte Sinai. Due sono le richieste da parte di Dio: da un lato il
popolo deve purificarsi lavando le proprie vesti; dall'altro non deve superare,
pena la morte, il limite tracciato attorno al monte (Es. 19:10-12).
Esodo 19:10 Il Signore disse a Mosè: «Và dal popolo e purificalo
oggi e domani: lavino le loro vesti
Esodo 19:11 e si tengano pronti per il terzo giorno, perché nel
terzo giorno il Signore scenderà sul monte Sinai alla vista di tutto il popolo.
Esodo 19:12
Fisserai per il popolo un limite tutto attorno, dicendo: Guardatevi dal salire
sul monte e dal toccare le falde. Chiunque toccherà il monte sarà messo a
morte.
È il segno della santità di Dio, invalicabile e distruttivo
per l'uomo e indica tutta la distanza che lo separa da Dio. Una santità che
definisce Dio come altro dall'uomo (Num. 23:19; Os. 11:9):
Numeri 23:19
Dio non è un uomo … non è un figlio dell'uomo…
Osea 11:9
…sono Dio e non uomo; sono il Santo in mezzo a te
La santità di Dio non è nemica del popolo, anzi gli dà
dignità e identità, costituendolo sua proprietà, nazione santa e regno di
sacerdoti in mezzo alle genti (Es. 19:5,6), associandolo alla sua stessa
santità e dandogli un comando di santità: “Siate
santi, perché io, il Signore, Dio vostro, sono santo” (Lev. 19:2; cfr. Lev.
11:45; 20:26). Sono parole che tracciano un cammino di conversione costante che
Israele è chiamato a percorrere e che trova la sua figura e metafora nella
liberazione dalla schiavitù egiziana.
La nostra riflessione sul tema della conversione percorre
un duplice cammino: a) La liberazione dalla schiavitù
dell'Egitto quale cammino di evoluzione spirituale; b) la
parabola del figlio prodigo (Luca 15:11-32), una storia di peccato e di
riscatto.
La liberazione dalla schiavitù d'Egitto
Gli eventi della liberazione dalla schiavitù dell'Egitto,
l’esperienza nel deserto, la nascita come popolo ai piedi del monte Sinai, il
Patto e il dono della Torah, sono vissuti da Israele come fondanti la sua
identità. A questa esperienza si richiameranno i profeti ogni volta che il
popolo si allontanerà da Dio. Israele passa dal non essere all'essere, come
fosse una vera e propria nascita (Deut. 32:6; Is. 43:1)
Deuteronomio 32:6 Così ripaghi il Signore, o popolo stolto e insipiente? Non è lui il
padre che ti ha creato, che ti ha fatto e ti ha costituito?
Isaia 43:1
Ora così dice il Signore che ti ha creato, o Giacobbe, che ti ha plasmato, o
Israele: «Non temere, perché io ti ho riscattato, ti ho chiamato per nome: tu
mi appartieni.
Tutto nasce da una chiamata a rendere culto a Dio nel
deserto, per rispondere alla quale era necessario partire, lasciare lo status
quo e intraprendere un cammino di tre giorni nel deserto (Es. 5:1-4).
Esodo 5:1 Dopo, Mosè e Aronne
vennero dal Faraone e gli annunziarono: «Dice il Signore, il Dio d'Israele:
Lascia partire il mio popolo perché mi celebri una festa nel deserto!».
Esodo 5:2 Il faraone rispose: «Chi è il Signore, perché io
debba ascoltare la sua voce per lasciar partire Israele? Non conosco il Signore
e neppure lascerò partire Israele!».
Esodo 5:3 Ripresero: «Il Dio degli Ebrei si è presentato a noi.
Ci sia dunque concesso di partire per un viaggio di tre giorni nel deserto e celebrare un
sacrificio al Signore, nostro Dio, perché non ci colpisca di peste o
di spada!».
Esodo 5:4 Il
re di Egitto disse loro: «Perché, Mosè e Aronne, distogliete il popolo dai suoi
lavori? Tornate ai vostri lavori!».
Un tre che indica
il compiersi di un ciclo necessario per arrivare a rendere culto a Dio. Il tre
infatti scandisce il tempo in un inizio, un centro e una fine: l'inizio è lo
stato di schiavitù; il centro è l'esperienza del deserto; la fine è l'entrata
nella Terra Promessa.
Tra lo stato di schiavitù e quello della libertà vi è il
deserto, un luogo di solitudine, di silenzio, di tentazione, di lotta e di
sofferenza; un luogo di purificazione, dove la vita è messa quotidianamente in
discussione e dove Israele capirà come tutto dipende da Dio e non da se stesso.
Ma a questo nuovo inizio, che ha la sua origine nella chiamata a rendere il
culto e a mettersi al servizio di Dio, si oppongono le forze ostili di chi non
conosce Dio: “Chi è il Signore, perché io
debba ascoltare la sua voce per lasciar partire Israele? Non conosco il Signore
e neppure lascerò partire Israele!” (Es. 5:2).
Sono forze che vogliono far rimanere nello status
quo colui che Dio ha chiamato, soffocando l'inizio di una nuova vita:
“Perché, Mosè e Aronne, distogliete il
popolo dai suoi lavori? Tornate ai vostri lavori!” (Es. 5:4). Non c'è tempo
per fare cose nuove. I ritmi del vivere quotidiano tolgono ogni speranza di
cambiamento e di crescita spirituale, trascinando la nostra vita in uno stato
di inconsapevole schiavitù, impostaci dalla quotidianità. Non c'è tempo per
Dio. Non è semplice iniziare un cammino di liberazione. Infatti, c’è stata una
dura lotta tra Dio e il faraone, prima che Israele potesse essere riscattato e
iniziare una nuova vita.
Sarà il passaggio del mar Rosso, che segna il confine tra
il passato e il futuro, tra la schiavitù e la liberazione, tra una vita
degradante e quella rigenerata e a dare inizio al nuovo rapporto tra Dio e il
popolo. Da questo momento in poi tutte le cose cambiano e Israele dovrà
imparare a dialogare con il suo Liberatore; non avrà più a che fare con
l'aguzzino egiziano, ma con Dio, che accompagnerà il suo popolo ai piedi del
Sinai dove gli darà una nuova dignità e identità fino ad allora sconosciute ad
Israele: “Ora, se vorrete
ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me
la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra! Voi sarete per me
un regno di sacerdoti e una nazione santa. Queste parole dirai agli Israeliti”
(Es. 19:5,6).
Avviene una nuova creazione: quello che prima era
non-popolo ora è popolo, proprietà di Dio e non più del faraone. Ma tutto ciò è
condizionato all'ascolto della Parola, nella libera scelta di Israele: “se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la
mia alleanza”. È dunque la Parola accolta che genera la nuova identità di
Israele e che crea il cambiamento di quello che prima era un non-popolo. Non è
dunque il popolo che si è dato una dignità, ma Dio ha operato in lui il
cambiamento per mezzo della sua Parola.
Ma questo non è ancora sufficiente, si rende necessario
anche il “custodire l'alleanza”
inaugurata dalla Parola, cioè perseverare in essa, dando spazio a Dio nella
propria vita, facendo della volontà di Dio la propria forma mentis,
che consente di vedere le cose dalla prospettiva di Dio ed operare in conformità
alle logiche di Dio.
Ma Dio non si limita a condurre il suo popolo fuori
dall'Egitto e a dargli un'identità, consacrandolo a se stesso come sua
proprietà, ma, sotto forma di nube prima e di Tenda del convegno poi, Egli
cammina con e in mezzo al suo popolo: “Stabilirò
la mia dimora in mezzo a voi e io non vi respingerò. Camminerò in mezzo a
voi, sarò vostro Dio e voi sarete il mio popolo” (Lev. 26:11,12).
Il Signore, dunque, è un Dio che vuole entrare in comunione
con il suo popolo e ne condivide la vita. Ed è proprio questa comunione divina,
che si fonda sull'ascolto e sulla custodia della Parola, che salvaguarda
l'identità d'Israele, garantendogli un'esistenza veramente libera. E sono
proprio loro, i Giudei, che alla provocazione di Gesù sulla sua capacità di
liberare, risponderanno “Noi siamo
discendenza di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno. Come puoi tu
dire: Diventerete liberi?”(Giov. 8:31,32). È l'orgoglio di un popolo che
sa, al di là degli eventi storici, che il suo essere libero dipende dal suo
essere e rimanere in Dio, fedele al Patto.
La parabola del figlio prodigo (Luca 15:11-32)
Dividiamo il racconto in quattro quadri narrativi:
a.
vv. 11-13: il figlio più giovane pretende dal padre la sua
parte di beni e, ricevutili, se ne va in una regione lontana e là
dissipa la sua sostanza vivendo in modo dissoluto;
b.
vv. 14-16: dopo aver dilapidato le sue sostanze, ci fu
una grande carestia, che lo gettò nella povertà; per
sopravvivere, si unì ad un cittadino di quella regione, che lo
mandò nei campi a pascolare i porci e preso dalla fame desiderava
mangiare le carrube dei porci, ma nessuno gliene dava;
c.
vv. 17-19: toccato il fondo, il giovane rientra in se
stesso e, considerata la sua situazione disastrosa, progetta
di ritornare alla casa paterna;
d.
vv. 20-24: e levatosi, ritorna dal padre, che, vistolo
da lontano, gli corre incontro, gli si getta al collo e lo copre di
baci. Il figlio incomincia a recitare il discorso che si era preparato,
ma il padre neppure lo ascolta e dà ordine ai servi di rivestire
il figlio delle vesti migliori, di mettergli un anello al dito e dei sandali ai
piedi e, quindi, di far grande festa.
Il primo quadro (vv. 11-13) presenta un figlio che si appropria delle sostanze del padre, benché gli spettassero di diritto in quanto erede; ma egli le pretende prima del tempo, e se ne va in una regione lontana, dove dissipa i suoi beni vivendo in modo dissoluto. Ecco che cos'è il peccato nella sua essenza: non è semplicemente la violazione di qualche comandamento – che rientra nelle logiche della fragilità umana segnata dalla colpa originale - ma è l'andare in una regione lontana dal Padre, cioè l'allontanarsi da Dio e spendere la propria vita lontana da Lui.
Questo allontanamento porta a
dissipare il bene della propria vita. Significativo in tal senso è il verbo
greco hamartánein, che si traduce con peccare, ma che in realtà dice
molto di più: esso significa letteralmente “deviare, non cogliere, fallire,
perdere, essere privato, sbagliare strada, allontanarsi dalla verità e da ciò
che è giusto”. Non è più una qualche azione sbagliata, ma un orientamento
esistenziale sbagliato e tale che rende inique e cattive anche le cose
oggettivamente buone, poiché il loro compiersi non è più rivolto verso Dio. È
il Male che intacca e rende vana ogni cosa buona. Ecco perché il giovane vive
in modo dissoluto, perché ha perso il senso delle cose e della vita. Non è più
Dio il suo referente, ma se stesso e il proprio autosoddisfacimento.
Il secondo quadro (vv. 14-16)
presenta gli effetti del peccato: la propria vita viene dilapidata
e dispersa nella futilità del vivere, che, a giochi finiti, non paga, ma porta
l'uomo in una condizione di grave carestia, che è avvenuta proprio in
quella regione lontana da Dio; carestia che significa privazione dei beni
essenziali per il vivere, ponendo quindi l'uomo in una condizione di pericolo
di morte. Questo stato di cose crea un profondo senso di smarrimento e di
disagio esistenziali, che spingono il giovane a cercare la soluzione in altri
uomini, che come lui abitano in quella regione lontana da Dio, e la soluzione
che essi offrono lo porta a una situazione di degrado insostenibile e senza vie
di uscita: accudire i porci, desiderando di nutrirsi del loro cibo.
Il terzo quadro (vv. 17-19)
presenta il giovane che rientra in se stesso e qui
trova la risposta al suo problema; nel rapporto con se stesso, con la
propria coscienza, dove lo attende la Voce della Verità. È qui dunque,
nell'intimità del proprio cuore, dove c’è la scintilla divina, che l'uomo trova
il momento del suo riscatto. Rientrando in se stesso dunque, nel silenzio della
propria coscienza, l'uomo incontra Dio. È qui che scatta la spinta; è qui che
l'uomo ritrova il significato della propria vita che lo porta a rialzarsi.
Il quarto quadro (vv. 20-24)
presenta gli effetti di questo ripensamento interiore: “levatosi andò da suo padre”. Quel
levarsi parla di una forza interiore ritrovata che spinge il giovane in un
cammino di ritorno al Padre. È la conversione: il riorientare la propria vita
verso il Padre, dove il giovane ritroverà la sua dignità perduta. La
conversione è il cammino esatto contrario a quello del peccato. E il Padre lo
stava aspettando e gli corre incontro abbracciandolo, accogliendolo nuovamente
nella casa che aveva abbandonato e ricostituendolo nella sua originaria dignità
di figlio.
Il figlio comincia a sciorinare la sua richiesta di
perdono, che si era preparato meticolosamente; ma il Padre neppure lo ascolta,
perché il ritorno del figlio vale ben più di qualsiasi discorso; del resto, già
da quell'attesa paziente e vigile del Padre è evidente il perdono già concesso
al figlio.
Questo è il comportamento di Dio, che rispetta le nostre
decisioni e le nostre scelte, giuste o sbagliate che siano. Lui vive in
un'amorevole attesa del nostro ritorno. Tutto ci è già stato perdonato in
Cristo (Rom. 8:1); non c'è bisogno di altro perdono, se non della nostra
risposta a questo perdono di Dio. È la storia della salvezza, e chi non viene
salvato è per causa sua, non certo di Dio. Quello che Dio doveva fare lo ha
fatto: ha inviato suo Figlio e ci ha lasciato la sua Parola e continua ad
illuminarci nell'intimità della nostra coscienza. Ora il gioco è nelle nostre
mani e la parola chiave vincente si chiama “conversione”, che non è soltanto un
atto occasionale, ma sistematico.
Conversione come scelta di vita; conversione come stile del
proprio vivere; conversione che è ricerca di comunione con Dio, conversione che
è risposta alla Parola di Dio, che ci interpella:
Marco 1:15
«Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al
vangelo».
Nessun commento:
Posta un commento