mercoledì 13 maggio 2020

LA CONVERSIONE


La conversione

Premessa

La distanza tra Dio e l'uomo Israele la impara quando Dio parla al popolo dal monte Sinai. Due sono le richieste da parte di Dio: da un lato il popolo deve purificarsi lavando le proprie vesti; dall'altro non deve superare, pena la morte, il limite tracciato attorno al monte (Es. 19:10-12).

Esodo 19:10 Il Signore disse a Mosè: «Và dal popolo e purificalo oggi e domani: lavino le loro vesti
Esodo 19:11 e si tengano pronti per il terzo giorno, perché nel terzo giorno il Signore scenderà sul monte Sinai alla vista di tutto il popolo.
Esodo 19:12 Fisserai per il popolo un limite tutto attorno, dicendo: Guardatevi dal salire sul monte e dal toccare le falde. Chiunque toccherà il monte sarà messo a morte.

È il segno della santità di Dio, invalicabile e distruttivo per l'uomo e indica tutta la distanza che lo separa da Dio. Una santità che definisce Dio come altro dall'uomo (Num. 23:19; Os. 11:9):

Numeri 23:19 Dio non è un uomo … non è un figlio dell'uomo…
Osea 11:9 …sono Dio e non uomo; sono il Santo in mezzo a te

La santità di Dio non è nemica del popolo, anzi gli dà dignità e identità, costituendolo sua proprietà, nazione santa e regno di sacerdoti in mezzo alle genti (Es. 19:5,6), associandolo alla sua stessa santità e dandogli un comando di santità: “Siate santi, perché io, il Signore, Dio vostro, sono santo” (Lev. 19:2; cfr. Lev. 11:45; 20:26). Sono parole che tracciano un cammino di conversione costante che Israele è chiamato a percorrere e che trova la sua figura e metafora nella liberazione dalla schiavitù egiziana.

La nostra riflessione sul tema della conversione percorre un duplice cammino: a) La liberazione dalla schiavitù dell'Egitto quale cammino di evoluzione spirituale; b) la parabola del figlio prodigo (Luca 15:11-32), una storia di peccato e di riscatto.

La liberazione dalla schiavitù d'Egitto

Gli eventi della liberazione dalla schiavitù dell'Egitto, l’esperienza nel deserto, la nascita come popolo ai piedi del monte Sinai, il Patto e il dono della Torah, sono vissuti da Israele come fondanti la sua identità. A questa esperienza si richiameranno i profeti ogni volta che il popolo si allontanerà da Dio. Israele passa dal non essere all'essere, come fosse una vera e propria nascita (Deut. 32:6; Is. 43:1)

Deuteronomio 32:6 Così ripaghi il Signore, o popolo stolto e insipiente? Non è lui il padre che ti ha creato, che ti ha fatto e ti ha costituito?
Isaia 43:1 Ora così dice il Signore che ti ha creato, o Giacobbe, che ti ha plasmato, o Israele: «Non temere, perché io ti ho riscattato, ti ho chiamato per nome: tu mi appartieni.

Tutto nasce da una chiamata a rendere culto a Dio nel deserto, per rispondere alla quale era necessario partire, lasciare lo status quo e intraprendere un cammino di tre giorni nel deserto (Es. 5:1-4).

Esodo 5:1 Dopo, Mosè e Aronne vennero dal Faraone e gli annunziarono: «Dice il Signore, il Dio d'Israele: Lascia partire il mio popolo perché mi celebri una festa nel deserto!».
Esodo 5:2 Il faraone rispose: «Chi è il Signore, perché io debba ascoltare la sua voce per lasciar partire Israele? Non conosco il Signore e neppure lascerò partire Israele!».
Esodo 5:3 Ripresero: «Il Dio degli Ebrei si è presentato a noi. Ci sia dunque concesso di partire per un viaggio di tre giorni nel deserto e celebrare un sacrificio al Signore, nostro Dio, perché non ci colpisca di peste o di spada!».
Esodo 5:4 Il re di Egitto disse loro: «Perché, Mosè e Aronne, distogliete il popolo dai suoi lavori? Tornate ai vostri lavori!».

Un tre che indica il compiersi di un ciclo necessario per arrivare a rendere culto a Dio. Il tre infatti scandisce il tempo in un inizio, un centro e una fine: l'inizio è lo stato di schiavitù; il centro è l'esperienza del deserto; la fine è l'entrata nella Terra Promessa.

Tra lo stato di schiavitù e quello della libertà vi è il deserto, un luogo di solitudine, di silenzio, di tentazione, di lotta e di sofferenza; un luogo di purificazione, dove la vita è messa quotidianamente in discussione e dove Israele capirà come tutto dipende da Dio e non da se stesso. Ma a questo nuovo inizio, che ha la sua origine nella chiamata a rendere il culto e a mettersi al servizio di Dio, si oppongono le forze ostili di chi non conosce Dio: “Chi è il Signore, perché io debba ascoltare la sua voce per lasciar partire Israele? Non conosco il Signore e neppure lascerò partire Israele!” (Es. 5:2).

Sono forze che vogliono far rimanere nello status quo colui che Dio ha chiamato, soffocando l'inizio di una nuova vita: “Perché, Mosè e Aronne, distogliete il popolo dai suoi lavori? Tornate ai vostri lavori!” (Es. 5:4). Non c'è tempo per fare cose nuove. I ritmi del vivere quotidiano tolgono ogni speranza di cambiamento e di crescita spirituale, trascinando la nostra vita in uno stato di inconsapevole schiavitù, impostaci dalla quotidianità. Non c'è tempo per Dio. Non è semplice iniziare un cammino di liberazione. Infatti, c’è stata una dura lotta tra Dio e il faraone, prima che Israele potesse essere riscattato e iniziare una nuova vita.

Sarà il passaggio del mar Rosso, che segna il confine tra il passato e il futuro, tra la schiavitù e la liberazione, tra una vita degradante e quella rigenerata e a dare inizio al nuovo rapporto tra Dio e il popolo. Da questo momento in poi tutte le cose cambiano e Israele dovrà imparare a dialogare con il suo Liberatore; non avrà più a che fare con l'aguzzino egiziano, ma con Dio, che accompagnerà il suo popolo ai piedi del Sinai dove gli darà una nuova dignità e identità fino ad allora sconosciute ad Israele: “Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa. Queste parole dirai agli Israeliti” (Es. 19:5,6).

Avviene una nuova creazione: quello che prima era non-popolo ora è popolo, proprietà di Dio e non più del faraone. Ma tutto ciò è condizionato all'ascolto della Parola, nella libera scelta di Israele: “se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza”. È dunque la Parola accolta che genera la nuova identità di Israele e che crea il cambiamento di quello che prima era un non-popolo. Non è dunque il popolo che si è dato una dignità, ma Dio ha operato in lui il cambiamento per mezzo della sua Parola.

Ma questo non è ancora sufficiente, si rende necessario anche il “custodire l'alleanza” inaugurata dalla Parola, cioè perseverare in essa, dando spazio a Dio nella propria vita, facendo della volontà di Dio la propria forma mentis, che consente di vedere le cose dalla prospettiva di Dio ed operare in conformità alle logiche di Dio.

Ma Dio non si limita a condurre il suo popolo fuori dall'Egitto e a dargli un'identità, consacrandolo a se stesso come sua proprietà, ma, sotto forma di nube prima e di Tenda del convegno poi, Egli cammina con e in mezzo al suo popolo: “Stabilirò la mia dimora in mezzo a voi e io non vi respingerò. Camminerò in mezzo a voi, sarò vostro Dio e voi sarete il mio popolo” (Lev. 26:11,12).
Il Signore, dunque, è un Dio che vuole entrare in comunione con il suo popolo e ne condivide la vita. Ed è proprio questa comunione divina, che si fonda sull'ascolto e sulla custodia della Parola, che salvaguarda l'identità d'Israele, garantendogli un'esistenza veramente libera. E sono proprio loro, i Giudei, che alla provocazione di Gesù sulla sua capacità di liberare, risponderanno “Noi siamo discendenza di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno. Come puoi tu dire: Diventerete liberi?”(Giov. 8:31,32). È l'orgoglio di un popolo che sa, al di là degli eventi storici, che il suo essere libero dipende dal suo essere e rimanere in Dio, fedele al Patto.

La parabola del figlio prodigo (Luca 15:11-32)

Dividiamo il racconto in quattro quadri narrativi:

a.       vv. 11-13: il figlio più giovane pretende dal padre la sua parte di beni e, ricevutili, se ne va in una regione lontana e là dissipa la sua sostanza vivendo in modo dissoluto;
b.      vv. 14-16: dopo aver dilapidato le sue sostanze, ci fu una grande carestia, che lo gettò nella povertà; per sopravvivere, si unì ad un cittadino di quella regione, che lo mandò nei campi a pascolare i porci e preso dalla fame desiderava mangiare le carrube dei porci, ma nessuno gliene dava;
c.       vv. 17-19: toccato il fondo, il giovane rientra in se stesso e, considerata la sua situazione disastrosa, progetta di ritornare alla casa paterna;
d.      vv. 20-24: e levatosi, ritorna dal padre, che, vistolo da lontanogli corre incontro, gli si getta al collo e lo copre di baci. Il figlio incomincia a recitare il discorso che si era preparato, ma il padre neppure lo ascolta e dà ordine ai servi di rivestire il figlio delle vesti migliori, di mettergli un anello al dito e dei sandali ai piedi e, quindi, di far grande festa.

Il primo quadro (vv. 11-13) presenta un figlio che si appropria delle sostanze del padre, benché gli spettassero di diritto in quanto erede; ma egli le pretende prima del tempo, e se ne va in una regione lontana, dove dissipa i suoi beni vivendo in modo dissoluto. Ecco che cos'è il peccato nella sua essenza: non è semplicemente la violazione di qualche comandamento – che rientra nelle logiche della fragilità umana segnata dalla colpa originale - ma è l'andare in una regione lontana dal Padre, cioè l'allontanarsi da Dio e spendere la propria vita lontana da Lui.

Questo allontanamento porta a dissipare il bene della propria vita. Significativo in tal senso è il verbo greco hamartánein, che si traduce con peccare, ma che in realtà dice molto di più: esso significa letteralmente “deviare, non cogliere, fallire, perdere, essere privato, sbagliare strada, allontanarsi dalla verità e da ciò che è giusto”. Non è più una qualche azione sbagliata, ma un orientamento esistenziale sbagliato e tale che rende inique e cattive anche le cose oggettivamente buone, poiché il loro compiersi non è più rivolto verso Dio. È il Male che intacca e rende vana ogni cosa buona. Ecco perché il giovane vive in modo dissoluto, perché ha perso il senso delle cose e della vita. Non è più Dio il suo referente, ma se stesso e il proprio autosoddisfacimento.

Il secondo quadro (vv. 14-16) presenta gli effetti del peccato: la propria vita viene dilapidata e dispersa nella futilità del vivere, che, a giochi finiti, non paga, ma porta l'uomo in una condizione di grave carestia, che è avvenuta proprio in quella regione lontana da Dio; carestia che significa privazione dei beni essenziali per il vivere, ponendo quindi l'uomo in una condizione di pericolo di morte. Questo stato di cose crea un profondo senso di smarrimento e di disagio esistenziali, che spingono il giovane a cercare la soluzione in altri uomini, che come lui abitano in quella regione lontana da Dio, e la soluzione che essi offrono lo porta a una situazione di degrado insostenibile e senza vie di uscita: accudire i porci, desiderando di nutrirsi del loro cibo.

Il terzo quadro (vv. 17-19) presenta il giovane che rientra in se stesso e qui trova la risposta al suo problema; nel rapporto con se stesso, con la propria coscienza, dove lo attende la Voce della Verità. È qui dunque, nell'intimità del proprio cuore, dove c’è la scintilla divina, che l'uomo trova il momento del suo riscatto. Rientrando in se stesso dunque, nel silenzio della propria coscienza, l'uomo incontra Dio. È qui che scatta la spinta; è qui che l'uomo ritrova il significato della propria vita che lo porta a rialzarsi.

Il quarto quadro (vv. 20-24) presenta gli effetti di questo ripensamento interiore: “levatosi andò da suo padre”. Quel levarsi parla di una forza interiore ritrovata che spinge il giovane in un cammino di ritorno al Padre. È la conversione: il riorientare la propria vita verso il Padre, dove il giovane ritroverà la sua dignità perduta. La conversione è il cammino esatto contrario a quello del peccato. E il Padre lo stava aspettando e gli corre incontro abbracciandolo, accogliendolo nuovamente nella casa che aveva abbandonato e ricostituendolo nella sua originaria dignità di figlio.

Il figlio comincia a sciorinare la sua richiesta di perdono, che si era preparato meticolosamente; ma il Padre neppure lo ascolta, perché il ritorno del figlio vale ben più di qualsiasi discorso; del resto, già da quell'attesa paziente e vigile del Padre è evidente il perdono già concesso al figlio.

Questo è il comportamento di Dio, che rispetta le nostre decisioni e le nostre scelte, giuste o sbagliate che siano. Lui vive in un'amorevole attesa del nostro ritorno. Tutto ci è già stato perdonato in Cristo (Rom. 8:1); non c'è bisogno di altro perdono, se non della nostra risposta a questo perdono di Dio. È la storia della salvezza, e chi non viene salvato è per causa sua, non certo di Dio. Quello che Dio doveva fare lo ha fatto: ha inviato suo Figlio e ci ha lasciato la sua Parola e continua ad illuminarci nell'intimità della nostra coscienza. Ora il gioco è nelle nostre mani e la parola chiave vincente si chiama “conversione”, che non è soltanto un atto occasionale, ma sistematico.

Conversione come scelta di vita; conversione come stile del proprio vivere; conversione che è ricerca di comunione con Dio, conversione che è risposta alla Parola di Dio, che ci interpella:

Marco 1:15 «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo».

Nessun commento:

Posta un commento