venerdì 28 giugno 2019

IL SENSO DELLA SOFFERENZA


Giobbe è un libro molto lungo, 42 capitoli, e sono molto complessi, molto difficili proprio nella logica del discorso. Ma soprattutto perché questi capitoli sono molto problematici proprio per il tema che affronta, perché è un tema difficile, forse anche senza soluzione, un tema che mette in crisi, perché il tema del libro di Giobbe è la sofferenza dell’innocente.

È una sofferenza soprattutto senza spiegazione ultima, perché anche quando ci fosse qualche spiegazione - ed è quello che il libro di Giobbe cerca di trovare - anche quando sembra di trovare una qualche spiegazione, però c’è sempre una sproporzione assoluta.

Il libro di Giobbe non è solo un libro che si interroga sul senso del dolore in generale e del dolore dell’innocente in particolare, ma affronta la domanda terribile su cosa fa Dio davanti al dolore dell’innocente. Ci troviamo davanti a delle violenze che sono inaccettabili, ci troviamo davanti alla morte e la domanda è: “Ma Dio dov’è?”. Il libro di Giobbe è un libro che parla di Dio che si rivela in riferimento a ciò che nell’uomo mette in crisi il suo rapporto con Lui: il problema del dolore.

Il libro è costruito in modo strano, perché i primi due capitoli sono scritti in prosa, poi dal terzo capitolo fino ai primi versetti del cap. 42 tutto è scritto in poesia e poi alla fine del capitolo 42 tutto torna a essere scritto in prosa. Queste due parti in prosa - inizio e fine, prologo ed epilogo - si potrebbero leggere da sole senza la parte in mezzo:

Giobbe è un uomo buono e benedetto, vive in una situazione di benedizione, però in questa situazione viene colpito da prove, disgrazie, che arrivano fino a toccargli la salute e la morte dei figli. Giobbe rimane fedele, continua a perseverare nella sua giustizia e nella sua bontà e allora - ecco la parte finale del libro, ecco l’epilogo - Dio gli restituisce tutto ciò che ha perso, lo premia per la sua fedeltà e quindi “tutti vissero felici e contenti”. Detta così è una favoletta, un racconto edificante, che deve servire a dire: “Anche nel dolore continuate a rimanere fedeli a Dio e vedrete che poi il Signore si farà vedere e in qualche modo vi ricompenserà”.

Questo sembra essere il racconto del libro di Giobbe. Solo che, in mezzo, dal capitolo 3 fino ai primi versetti del capitolo 42 - cioè il vero libro di Giobbe, quello che è scritto in poesia - qui Giobbe è completamente diverso: non è il Giobbe paziente che davanti alle disgrazie e alla sofferenza, accetta tutto dalle mani di Dio, continuando a benedire Dio, ma è il Giobbe che invece protesta, che lotta con Dio, che dice “Non va bene”. Vuole costringere Dio a dare una risposta a quella terribile domanda: “Ma perché tutto questo? E tu, Dio, cosa fai?”

Posso brevemente percorrere il contenuto più importante di questo libro per cercare però di averne delle chiavi di interpretazione, per cercare di capire che messaggio vuole dare.

Nel prologo Giobbe viene presentato come uomo perfetto. Non ci viene dato il contesto storico di Giobbe, ma solo quello geografico: si dice che abitava nel territorio di Uz, che non sappiamo nemmeno dove sia. Probabilmente si riferisce al territorio di Edom - e il particolare può anche essere interessante perché Edom era il territorio di Esaù, il fratello di Giacobbe, e dunque fuori di Israele. È come se questo Giobbe situato fuori di Israele, questo Giobbe visto ironicamente come discendente di Esaù, avesse molto da insegnare al discendente di Giacobbe.

Che Giobbe sia messo fuori dai confini di Israele, anche se poi parla sempre come un israelita, serve probabilmente a dare alla figura di Giobbe una dimensione universalistica, valida per tutta l’umanità.

Comunque sia, questa mancanza di contesto storico e questa apertura universalistica, hanno portato i rabbini d’Israele a leggere il libro di Giobbe non in senso storico, ma come se fosse una parabola, dove Giobbe rappresenta ogni uomo. E allora ogni uomo che legge il libro di Giobbe è chiamato a identificarsi in Giobbe, sapendo che il problema di Giobbe è il problema di ogni uomo. Non leghiamo Giobbe a epoche particolari, e a luoghi particolari: il suo problema è il problema di ogni uomo, in ogni luogo e in ogni tempo.

Cosa racconta il prologo? Questo uomo perfetto - perfetto non come Dio, ma perfetto come uomo, cioè giusto, timorato di Dio, che stava lontano dal male - godeva di grande benedizione da parte di Dio, proprio per la sua bontà; dunque aveva molti figli e figlie, la fecondità indica la pienezza di vita, godeva di molti beni, di molto bestiame. Giobbe vive un rapporto bello, facile con la vita, un rapporto benedetto dalle ricchezze e, soprattutto, dall’armonia e dalla comunione sia familiare, sia con tutti quelli che Giobbe ha intorno a sé, con tutti i suoi concittadini.

Questa situazione di grande armonia era condivisa anche dai figli che la vivevano tra di loro – è scritto, infatti, che ogni fratello faceva un banchetto invitando anche tutti gli altri, anche le sorelle, sottolineando così una ricchezza che non si chiude nell’egoismo, ma si offre in banchetti vicendevoli. Offrire banchetti ha un valore simbolico, vuol dire aprirsi agli altri, non semplicemente divertirsi, significa condividere la vita, perché il cibo rappresenta l’elemento vitale più importante per l’uomo e mangiare vuol dire assumere cibo e farlo diventare nostra vita.

È il cibo che nutre la vita ed è il cibo che, assimilato, ci permette di vivere. Condividere il cibo vuol dire condividere ciò che ti fa vivere: dal punto di vista simbolico, quando questi preparavano un banchetto e invitavano tutti gli altri, c’era una vera condivisione di vita, che i fratelli vivevano tra di loro in armonia e in armonia con il padre, Giobbe, che alla fine di ogni ciclo di banchetti radunava i suoi figli e offriva sacrifici al Signore, perché se qualcuno dei figli avesse sbandato un po’ sarebbe stato Giobbe a garantirli dinanzi a Dio, per proteggere il rapporto dei suoi figli con Dio.

Dentro questa armonia si inserisce una nota stonata perché Dio sta ricevendo i suoi ministri e tra loro c’è anche il satàn - Satana, che va a cercare il “pelo nell’uovo” - che dice: “È vero che Giobbe è un uomo giusto, non lo si può negare: ma come si può essere certi che sia giusto perché ama la giustizia, e che tema Dio perché ama Dio? Non potrebbe essere che è giusto e teme Dio solo perché ha una vita benedetta ed è felice?” È facile amare Dio quando si sta bene.

In poche parole, è una domanda che faremmo bene a porci anche noi: la nostra fede, il nostro rapporto con Dio sono questione di benessere, di buona salute, di felicità o dipende dal fatto che Dio è tutto per noi, che è la persona più importante con la quale possiamo metterci in relazione nella nostra vita e, di conseguenza, cerchiamo Dio perché capiamo che lui è il bene assoluto e non perché ci dà dei beni materiali?

La crisi che satana vuole provocare è: la religiosità di Giobbe è interessata o disinteressata? Questo è il problema, uno dei problemi tipici dell’uomo: Noi cerchiamo di vivere in grazia di Dio solo perché abbiamo paura di ciò che potrebbe succedere, oppure perché lo amiamo? Crediamo in Lui perché comunque ci conviene? Questa è la domanda che mette in gioco il concetto stesso di Dio, ed è la domanda che pone satana: “Prova a togliere a Giobbe tutto quello che ha e vediamo se continuerà a benedirti”. Dio dice: “Io non ho nessun problema, mi fido di Giobbe, fai quello che vuoi, levagli quello che ha”. Giobbe perde tutto, compresi i figli, ma continua a benedire: «Nudo uscii dal grembo di mia madre, e nudo vi ritornerò. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore!» (1:21).

Satana non si arrende, dice: “Ti è andata bene, perché gli hai tolto i figli e le cose, ma non l’hai toccato veramente nella vita, prova a toccarlo nella carne e vedi se continua a benedirti!”. Giobbe viene toccato nella carne, una malattia che lo abbrutisce fisicamente. A questo punto arrivano tre amici che sono venuti a sapere della grave situazione di Giobbe, fanno una specie di lutto per sette giorni e, dice il testo, stanno in silenzio e non parlano perché vedevano che il suo dolore era molto grande (2:13).

Questo è un insegnamento importante: davanti a un dolore molto grande, l’unico atteggiamento di sapienza è tacere, non cercare parole consolatorie che non vengono anch’esse da un’esperienza di dolore. Davanti a un uomo che soffre, le uniche parole consentite sono le parole che può dire qualcuno che comprende pienamente quel dolore e lo condivide, cioè che parla da dentro a quel dolore. Se non abbiamo il coraggio di entrare dentro quel dolore, se non abbiamo il coraggio di entrare dentro la disperazione di chi soffre, allora l’unica strada di sapienza è tacere. E gli amici tacciono.

Poi inizia la parte in poesia dove Giobbe inizia a parlare, e incominciano a parlare anche gli amici. Abbiamo dunque un Giobbe paziente nel prologo e poi nella parte in poesia un Giobbe che comincia a parlare maledicendo la vita e lottando con Dio. E abbiamo gli amici del prologo che saggiamente tacciono all’inizio, ma che poi nella parte in poesia si mettono a parlare, ma non condividendo il dolore di Giobbe. Si mettono a parlare ma dall’esterno, facendo quello che la saggezza suggerisce di non fare e dicendo cose non giuste.

Ci sono tre cicli di dialoghi in cui Giobbe parla e gli amici uno dopo l’altro parlano e Giobbe risponde. Ma Giobbe più che parlare con gli amici si mette a lottare con Dio, fino a quando finalmente Dio gli risponderà.

Cerchiamo di capire cosa ci mette davanti questa parte del libro. Innanzitutto Giobbe inizia al capitolo 3 a parlare maledicendo il giorno della sua nascita e la notte del suo concepimento, dove questa maledizione è desiderio di distruzione. Giobbe maledice, ma in realtà quello che Giobbe dice è “perisca il giorno che io nacqui e la notte che disse: È concepito un maschio” (3:3). Giobbe sta dicendo che non vorrebbe essere mai nato. E siccome invece è nato, allora poi, sempre in questo stesso capitolo, si mette a sognare di essere già morto e di essere nello Sheol e finalmente di riposare.

Giobbe innanzitutto - ed è fondamentale - non maledice Dio: vuole distruggere la sua vita, vuole esserne fuori, perché questa vita è diventata insopportabile, però non maledice Dio. Desidera di uscire da una situazione insopportabile che però, nonostante tutto, invece accetta, perché Giobbe dice che non vorrebbe essere mai nato, poi dice che vorrebbe essere morto, però in realtà rimane vivo, non si suicida, non può cancellare la sua vita. Potrebbe uscirne uccidendosi, ma questo nemmeno lo sfiora come pensiero: Giobbe è davanti a una situazione che dichiara insostenibile, perciò accusa Dio, però continua a vivere chiedendo a Dio di spiegargli perché mai gli stia succedendo tutto questo.

Gli amici cominciano a parlare e cominciano davanti a questa denuncia di Giobbe, che è la denuncia del suo assurdo dolore. I loro discorsi che dovrebbero essere consolatori, dovrebbero secondo loro riportare Giobbe sulla “retta via”. Abbiamo in questi tre cicli di discorsi, da una parte la posizione degli amici, dall’altra la posizione di Giobbe, che sono posizioni completamente diverse.

La posizione degli amici è quella tradizionale, retributiva, che diceva: se uno fa il bene, starà bene, se uno fa il male, starà male. Dunque se tu vedi uno che sta bene puoi tranquillamente dire che lui è buono, se vedi uno che sta male puoi dire che lui è cattivo.

Una posizione di questo tipo oltre a essere continuamente smentita fin dall’inizio della storia, fin dai primi capitoli della Genesi, dove il primo a morire è proprio l’unico giusto che c’era, Abele, oltre a essere contraddetta dalla realtà dei fatti, è contraddetta anche da Giobbe, perché Giobbe è innocente, è giusto.

Gli amici prendono la teoria tradizionale della retribuzione e la applicano a Giobbe, e la applicano in modo semplicistico e automatico. Ti comporti bene? Avrai il bene. Ti comporti male? Avrai il male. No! La vita è più complicata e non funziona così.

Questa teoria tradizionale a cui si rifanno gli amici che poi è la teoria che troviamo nei Profeti, nei libri Sapienziali, di per sé non è sbagliata, ciò che è sbagliato è applicarla in modo semplicistico e automatico, come causa ed effetto. Fai il bene e stai bene, fai il male e stai male. Non è così semplice.

In realtà questa teoria si appoggia su due punti fondamentali. Il primo è la consapevolezza che le scelte etiche dell’uomo hanno una loro forza intrinseca che prima o poi si manifesta. Il che vuol dire che se tu fai il bene stai mettendo in circolazione una energia di bene e questa ha una sua forza. Al contrario se tu fai il male metti in circolazione una energia di male, e questa ha una sua forza. Quindi fare il male crea in qualche modo il male, crea una situazione di male, e fare il male fa male anche a chi fa il male. Chi commette il male, fa del male anche a se stesso. Questa è una prima consapevolezza.

C’è poi la certezza che l’uomo è inserito dentro un progetto salvifico di Dio che comprende anche il male e che, siccome è progetto salvifico di Dio, vince il male trasformandolo in bene.

Questa è la teoria retributiva e gli amici invece la prendono in modo semplicistico, e questo non funziona. Ma in realtà, quando si commette l’ingiustizia, quando c’è un peccato, il modo di rispondere non è punire il colpevole, andare in tribunale, andare dal giudice e far sì che il colpevole sia punito, perché tu in questo modo, impedisci al colpevole di continuare a fare del male, però non lo converti, e quindi non risolvi il vero problema.

Il vero modo di rispondere al male, dice la Scrittura, è di rispondere con il bene, con l’amore. Quindi il mondo giuridico presentatoci da Gesù prevedeva che chi aveva ricevuto il male non mettesse di mezzo il giudice, ma andasse direttamente dal colpevole per accusarlo di quello che stava facendo, e questa accusa aveva lo scopo di aiutare il colpevole a capire che facendo il male, lui si stava facendo del male. D’altro canto la parte lesa che aveva ricevuto il male, perdonando il male, dimenticava quel male e diventava preoccupata che il colpevole smettesse di farsi del male, smettesse dunque di essere colpevole e si potesse così tornare ad essere in comunione.

Questa è vera giustizia perché si risponde al male con il bene, si risponde al peccato perdonandolo e mettendo in opera tutto quello che si può per far sì che questo peccato smetta di esserci, perché il peccatore capendo quello che sta facendo smetta di fare il male e così il male non ci sarà più, non ci sarà più l’ingiustizia, quindi ci sarà la vera giustizia, e non ci sarà neanche più chi fa il male, perché chi fa il male avendo capito si lascia convertire, si lascia perdonare e smette di fare il male. Ecco il trionfo della giustizia, l’ingiustizia non c’è più e non c’è più chi fa del male, non serve nemmeno più punirlo.

L’Antico Testamento applica tutto questo a Dio dicendo che Dio si comporta così con l’uomo per aiutarlo a capire che sta facendo il male, così che il peccatore si lasci convertire e possa essere perdonato. Dio offre il perdono allo scopo di convertire l’uomo.

In questa visione si potrebbe anche capire una possibile funzione della sofferenza e del dolore. Siccome il dolore, la sofferenza e la morte sono la conseguenza del peccato, hanno proprio questa funzione di mettere il peccatore davanti alle conseguenze dolorose del proprio peccato, così che sperimentando quanto male fa il male, quanto male fa fare il male, l’uomo smetta di farlo, si lasci convertire e si lasci perdonare e ridiventi santo.

Ecco che la sofferenza potrebbe essere questo cammino attraverso il quale Dio stimola il peccatore perché il peccatore prenda coscienza del suo male e si lasci perdonare. Potrebbe, perché in realtà, come ho detto prima, questo non funziona mai in modo automatico e soprattutto non va mai interpretato come: “Quello ha fatto il male, allora adesso soffre”, oppure “quello soffre perché Dio gli vuole far capire che ha fatto il male”, non funziona così, il discorso è molto più globale. Quello che succede nel libro di Giobbe è che gli amici lo prendono in modo semplicistico e allora dicono a Giobbe: “Ecco, il tuo problema si risolve facilmente! Tu stai soffrendo perché Dio ti punisce, affinché tu capisca che hai fatto il male. Convertiti e vedrai che tutto tornerà come prima!”

Questo è falso, perché Giobbe è innocente, questo è perfino perverso, perché somiglia tanto al discorso di Satana: ami Dio solo perché hai paura che Dio ti punisce o perché ti conviene, ne hai un tornaconto. Questa è la posizione degli amici, che chiaramente non funziona, perché Giobbe è innocente. Giobbe allora dice: “Questo non funziona, perché io sono innocente, quindi io non posso accettare che Dio mi stia punendo per qualcosa, ma se lui mi sta punendo perché vuole che io mi converta dal male, dal momento che questo male non c’è, questa punizione è completamente ingiusta. Allora adesso sono io, Giobbe, che metto sotto processo Dio per mostrargli che quello che sta facendo è ingiusto”.

È così che va capito il libro di Giobbe. Giobbe in questo modo però cade nella trappola degli amici, perché anche lui va in cerca del colpevole: questo è il problema. Gli amici stanno interpretando male e, di fatto, nel libro Dio non accusa mai Giobbe di aver fatto il male, quindi sono completamente fuori strada, ma in qualche modo portano fuori strada anche Giobbe perché anche lui cade nella trappola di credere che se c’è del male qualcuno deve essere colpevole. Se non sono colpevole io, allora sarà colpevole Dio.

Questo è il problema che ogni uomo ha davanti alla sofferenza: alla sofferenza noi diamo un valore accusatorio. Vediamo il dolore e diciamo: “Chi è che ha fatto il male? Chi è il colpevole?” È colpevole l’uomo oppure non è colpevole, e allora è colpevole Dio che ha permesso che questo male cadesse su un uomo che è giusto. Noi andiamo continuamente in cerca del colpevole. È colpevole l’uomo? Abbiamo risolto il problema. Non è colpevole l’uomo? Allora inevitabilmente noi facciamo sì che la sofferenza diventi un’accusa a Dio, come Giobbe, dicendo che è Dio il colpevole.

È Dio il principio del male? No, questo non si può dire e non lo dice mai neppure Giobbe. Ma allora il male avviene perché lui permette il male? Sembrerebbe di sì, ma Giobbe non lo dice. Il problema allora è che dobbiamo fare il processo a Dio anche noi, insieme a Giobbe, cioè lottare con una falsa idea di Dio per trovare la vera immagine di Dio. Giobbe si mette a lottare con Dio, ecco il processo, perché vuole che Dio cambi, perché vuole che Dio si converta, prenda coscienza che quello che sta facendo non è secondo Dio, allora bisogna che Dio si rimetta a fare Dio, come Dio.

È questa la lotta del credente con Dio, e dico del credente perché Giobbe è un gigante della fede. Questa è la lotta del credente, è la lotta di Giobbe che, davanti a un Dio che sembra diventato cattivo e ingiusto, dice: “No! Non è vero, Dio è buono e Dio è giusto! Io non mi rassegno all’idea che Dio possa essere cattivo e ingiusto e allora lotto con lui perché voglio ritrovare il Dio buono e giusto in cui io ho sempre creduto e in cui io continuo a credere e non rinuncio a credere a questo”.

Allora bisogna che sia Dio a cambiare, io non voglio cambiare. Io non voglio cambiare la mia immagine di Dio, perché so che Dio è buono, io non accetto di dire che è cattivo. I fatti sembrano dire questo però, c’è un innocente che soffre, i fatti sembrano dire che Dio è cattivo. Ebbene, io, Giobbe, io credente, dico no, non è vero, Dio è buono. Io non cambio. Dio è buono e allora adesso io lotto con Dio perché lui finalmente si manifesti per ciò che è, buono e giusto, e dunque io possa lodarlo nuovamente per ciò che è, anche davanti a questi fatti che sembrano contraddire la realtà.

Leggendo il libro di Giobbe troviamo delle frasi che sembrano delle bestemmie. Tu, Dio, sei cattivo, tu uccidi l’uomo… In realtà è il processo! Quello che Giobbe vuole è che Dio possa finalmente rimanifestarsi per ciò che è, e questo perché Giobbe crede nel Dio buono e ha a cuore che il Dio buono si manifesti come buono a tutti.

A volte i Salmi riportano preghiere in cui si dice a Dio: Svegliati, che fai dormi? Perché lasci che le nazioni dicano: dov’è il loro Dio? Questo è il problema, davanti al dolore, la domanda è: Ma Dio dov’è? Che fa? È andato in vacanza? Sta giocando a carte? Dov’è Dio? Se n’è andato? Perché il male trionfa, l’innocente viene perseguitato, la violenza regna, i bambini muoiono, gli uomini vengono perseguitati, e Dio che fa? Dov’è? Questa è la domanda.

Giobbe vuole che Dio si manifesti per ciò che è, così che nessuno possa dire: Ma Dio dov’è? Oppure, come gli amici: Stai male? È colpa tua! Soffri? È perché sei colpevole! È perché hai commesso peccato! Questi sono gli amici. Giobbe non vuole questa tesi, ma non vuole neppure che Dio non intervenga per manifestarsi per come realmente è.

Alla fine dei suoi discorsi allora Giobbe giura la sua innocenza e dice: “Basta, è andata, se devo morire muoio, non m’importa più niente, io sono innocente, giuro, metto pure la firma, firma il documento di innocenza. Succeda quel che succeda io vado incontro a Dio e Dio adesso mi dovrà rispondere”. E dopo un breve intervallo nel quale interviene un tal Elihu che però non aggiunge niente di decisivo al dibattito, Dio finalmente risponde, e risponde mettendosi a fare delle domande.

Comincia a chiedere a Giobbe: “Tu dove eri quando io costruivo la Terra? Dove eri quando io fermavo il mare perché non straripasse sulla terra? Dove eri quando io creavo le stelle? Tu sai come si fa a dar da mangiare ai leoni, o ai figli del corvo? Tu sai come si fa a far partorire i camosci? Sai come si fa a tenere la Terra stabile sulle sue colonne? Tu sai come si fa a tenere insieme le costellazioni? Beh, tu saprai dove sono la brina, la neve no? Dimmelo!”.

Cosa fa Dio? Con queste domande mette Giobbe davanti ai misteri belli del Creato per aiutare Giobbe a capire, e qui fa il processo a Giobbe, ma quello vero, non quello falso degli amici. Dio vuole aiutare Giobbe a capire che l’uomo è davanti a dei misteri che non si possono capire, e allora lo mette davanti ai misteri del Creato, lo mette davanti ai misteri delle cose del mondo.

Giobbe le conosce, conosce le stelle, la neve, la brina, i leoni e i camosci, è il suo mondo. Ma Giobbe adesso è costretto ad ammettere che è il suo mondo, ma lui non ne sa niente, non lo capisce! Ci sono misteri davanti ai quali si deve fermare. E se ci si deve fermare davanti ai misteri delle stelle, quanto più ci si deve fermare davanti al mistero della vita dell’uomo. Posso pure capire come fanno le stelle a muoversi, perché ci sono delle leggi che prima o poi riusciremo a scoprire, ma la vita dell’uomo no, perché c’è dentro la libertà.

Allora Dio mostra a Giobbe un creato bello e buono, così che Giobbe capisca che Dio, che ha fatto quelle cose è bello e buono e che lui, Giobbe, invece quelle cose non le ha fatte, è piccolo e si deve fermare davanti al mistero e deve dire: “Ebbene, l’uomo non può capire tutto, deve sapersi fermare”. Allora l’uomo non può capire la sofferenza, che però non è più accusatoria, perché non si può spiegare, né accusando l’uomo, né accusando Dio.

Quando Giobbe capisce questo e dice: “Basta, non parlo più”, Dio insiste e questa volta gli fa vedere le cose mostruose, i mostri marini, perché adesso Dio va a toccare un punto nevralgico e dice a Giobbe: “Ascoltami bene, adesso tu ti metti a fare Dio, ti rivesti di maestà e potenza, distruggi il male in un attimo, fai tutto quello che io non ero capace di fare, e io, che mi metto a fare l’uomo, ti loderò!”. Dio dice: “Scambiamoci le parti, tu mi accusavi di non saper fare Dio come Dio deve fare? Allora fallo tu, Dio. Risolvi il problema del male, se sei capace e allora io ti loderò!”.

Dio sta toccando il punto nevralgico che è il problema eterno dell’uomo. Accettare di essere uomo e non Dio, accettare che Dio sia diverso dall’uomo. Questo è il nostro problema. Il problema di Giobbe è il nostro di sempre. “Ma perché Dio ha fatto questo? Ma perché Dio ha permesso quest’altro?”. Dio ci dice: “Ah, sì? Fallo tu! Scambiamoci le parti. Se tu sai fare Dio così bene, meglio di me, scambiamoci le parti!”.

La vera potenza di Dio non è quella che noi pensiamo, quella di Superman, di uno che interviene e risolve con la bacchetta magica. La potenza di Dio è talmente potente da poter entrare nella debolezza dell’uomo, addirittura facendosi uomo per portare l’uomo alla salvezza. Quella è la potenza di Dio. Convertire i cuori.

Quella è la potenza di Dio. La vera potenza di Dio è convertire i cuori e salvare l’uomo. Finalmente Giobbe, davanti a questo, capisce. Capisce di non poter capire e accetta il mistero e allora la famosa frase: “Prima ti conoscevo per sentito dire, ora finalmente i miei occhi ti vedono”. Quando Giobbe dice questo è ancora malato, ancora senza niente, nella disgrazia. Entra nella benedizione così come è. Malato, senza capire niente.

A questo punto l’epilogo racconta che Dio gli restituisce tutto. Perché Giobbe ha potuto dire: ”Ora i miei occhi ti vedono.

E dopo aver detto questo Giobbe può persino perdonare gli amici e fare i sacrifici per loro. Giobbe è entrato nella benedizione perché ora vede Dio e perdona come perdona Dio. Allora è beato, è benedetto e per dire questo l’epilogo dice che Giobbe è ridiventato ricco, che Giobbe è guarito e felice.

Non è un lieto fine, perché i figli morti rimangono morti, perché il tempo della sofferenza a Giobbe non lo restituisce nessuno. Adesso però pur nella sofferenza Giobbe è entrato nella benedizione perché dentro la sofferenza e dentro la morte, Giobbe sa che Dio, la sofferenza e la morte, sono tutte realtà che bisogna accettare nel mistero e che accettando il mistero gli occhi si aprono, vedono cose diverse: “Ora i miei occhi ti vedono”.

Se accettiamo il mistero è possibile vedere il Dio buono anche dentro il dolore. Il libro di Giobbe non dà una risposta vera al problema del bene e del male. O meglio, dà una risposta vera, ma non di tipo logico, con spiegazioni dettagliate. La risposta del libro di Giobbe è una risposta esperienziale, la risposta del libro di Giobbe è: “Se volete capire il senso del dolore e della morte, dovete entrarci dentro continuando a credere che Dio è buono. Dovete cambiare il cuore, accettare che Dio è Dio, dovete accettare il mistero”.

E il male dunque rimane un mistero, però Dio può essere riconosciuto come Dio buono anche nel dolore, e come il Dio della vita anche nella morte. Giobbe pone la domanda in tutta la sua drammaticità, perché è un uomo che lotta, che grida, che accusa Dio, che non ha paura di chiamare le cose con il loro nome, perché è l’uomo di fede che combatte dentro la crisi della fede.

Giobbe ha posto la domanda, la risposta la possiamo trovare a Pasqua, quando con il Figlio di Dio che muore e risorge, lì finalmente finisce la morte, perché viene vinta, e lì finisce anche la colpa, il male viene vinto. Di questo innocente che muore e questa volta Innocente con la I maiuscola, perché è il Figlio di Dio, e Gesù muore perdonando, distruggendo la colpa e dicendo: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno.

Perdona loro”, il male c’è, ma “non sanno quello che fanno”. Se noi accettiamo questo, accettiamo di essere quelli che quando facevano il male non sapevamo quello che facevamo e perciò adesso si lasciano finalmente perdonare da Dio, se noi entriamo dentro questa dinamica, allora anche la nostra colpa è cancellata, la colpa è distrutta e diventiamo, anche noi, innocenti.

Non c’è più niente che ci possa accusare. Noi siamo liberi dalla colpa per quella morte e niente più allora, se noi accettiamo di essere questi che si lasciano perdonare, niente più ci può accusare perché non solo Gesù è risorto e ha distrutto la morte e ha distrutto la colpa, ma quell’unico segno che poteva ancora accusarci, il corpo morto di Gesù che poteva accusarci di essere stati assassini, quel corpo non c’è più, la tomba è vuota. Questo è il grande annuncio di Pasqua.

Per concludere, la risposta al problema della sofferenza è la vita stessa di Cristo. Egli non cancella il dolore dal mondo, ma lo assume in sé e, attraverso di esso, ripara il peccato e apre le porte del Regno dei cieli. Così anche per i suoi discepoli: «Se uno vuol venire dietro a me, rinunci a se stesso, prenda ogni giorno la sua croce e mi segua» (Luca 9:23). In questa prospettiva di comunione alla sofferenza di Cristo, si può comprendere la sorprendente affermazione di Paolo: «a voi è stato dato, rispetto a Cristo, non soltanto di credere in lui, ma anche di soffrire per lui» (Filip. 1:29). Allora la sofferenza umana si illumina di nuova luce: è grazia e dono divino e prepara per noi una quantità smisurata ed eterna di gloria (2Cor. 4:17). Si può gioire anche nella persecuzione: «Ed essi se ne andarono dalla presenza del Sinedrio, rallegrandosi di essere stati reputati degni di essere vituperati per il nome di Gesù» (Atti 5:41), ed essi insegnarono agli altri a fare altrettanto: «in quanto partecipate alle sofferenze di Cristo, rallegratevene, affinché anche alla rivelazione della sua gloria possiate rallegrarvi giubilando. Se siete vituperati per il nome di Cristo, beati voi! perché lo Spirito di gloria, lo Spirito di Dio, riposa su voi» (1Piet. 4:13,14). Paolo è contento di soffrire perché sa che ne viene del bene per la Chiesa: «Ora mi rallegro nelle mie sofferenze per voi; e quel che manca alle afflizioni di Cristo lo compio nella mia carne a pro del corpo di lui che è la Chiesa» (Col. 1:24).

Sopra la porta della cella di padre Pio si legge anche oggi la scritta: “La croce è sempre pronta e ti aspetta ovunque”. La penitenza che più piace a Dio è il dolore dei propri peccati, il portare con dolce rassegnazione la propria croce.

L’uomo, chiamato ad essere felice, se non riesce a dare un senso alle proprie sofferenze, cerca semplicemente di eliminarle in tutti i modi, ma non è nella mancanza di pene e prove che troveremo il nostro appagamento.

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